«Divideremo tutto», diceva Massimo D'Alema nell'audio rubato da una call con gli altri mediatori italiani e colombiani dell'affaire Bogotà, mai andato in porto. Quel «tutto» sarebbero stati 80 milioni, il 2 per cento di una maxi commessa da 4 miliardi di euro per la vendita di aerei e navi militari di Leonardo e Fincantieri alla Colombia. Percentuale che lo stesso D'Alema nella conversazione definiva frutto di «condizioni straordinarie» perché «normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, in questo caso no». Del resto proprio per la sua potenziale influenza e per il peso «politico» delle sue relazioni nelle aziende italiane a partecipazione pubblica era stato coinvolto dai due pugliesi Emanuele Caruso e Francesco Amato, per il tramite di Giancarlo Mazzotta. Per la sua conoscenza diretta e per i suoi rapporti di lunga data col presidente di Leonardo Alessandro Profumo e per il canale con l'allora direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri, Giuseppe Giordo, poi sospeso dalle deleghe. Il quale interloquiva direttamente con l'ex premier. Tutti coinvolti nell'inchiesta della Procura di Napoli. Insieme con gli uomini del «team» di D'Alema che lo affiancavano nell'affare, figure di fiducia che seguivano in prima persona i vari passaggi della trattativa arrivata a un soffio dal concludersi. Soggetti chiave, perché D'Alema non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle aziende di Stato, sottoposte a rigide norme interne sugli intermediari. Infatti, formalmente, il tramite tra le aziende italiane e la Colombia avrebbe dovuto essere - come spiega lo stesso D'Alema negli audio rubati - lo studio legale di Miami «Robert Allen Law», specializzato nella compravendita di yacht di lusso. Non esattamente il profilo di un intermediario di partecipate pubbliche che vendono tecnologia militare. D'Alema inizialmente aveva negato, in un'intervista che poi ha lui stesso smentito in un'altra successiva, che lo studio fosse stato proposto da lui. Invece per conto dello studio c'erano l'avvocato Umberto Bonavita e Gherardo Gardo, commercialista bolognese e uomo vicinissimo a D'Alema.
Sia Fincantieri che Leonardo avevano da subito smentito di aver affidato qualsivoglia incarico a D'Alema. Non c'era infatti nulla di formalizzato. Eppure le cose si erano spinte molto avanti. Fincantieri aveva firmato una dichiarazione di intenti preliminare con la Colombia, supervisionata da Bonavita. Leonardo aveva addirittura scritto una bozza di contratto per lo studio Allen, mai perfezionato. E sono diversi i messaggi in cui l'ex premier tira in ballo l'ad Alessandro Profumo. Per esempio nelle call che si stavano organizzando con i rappresentanti dello Stato colombiano. D'Alema si raccomandava così in chat: «Naturalmente il diritto a parlare è limitato a me, Profumo e Giordo. Gli altri ascoltano». Profumo si era assolto in Commissione Difesa spiegando che «D'Alema non aveva alcun mandato, formale o informale, a trattare la vendita di armi alla Colombia per conto di Leonardo. Avevamo già avviato la procedure nel 2019, prima di queste vicende. D'Alema ha prospettato a Leonardo che queste opportunità potessero essere maggiormente concrete ma fin da subito ha chiarito che sarebbe rimasto del tutto estraneo alle future attività di intermediazione nei nostri confronti».
La «storia istituzionale» di D'Alema e la possibilità di sfruttarla per ottenere commesse aveva fatto già gola ad altri soggetti, che avevano tentato di usare le relazioni dell'ex premier per aprirsi dei canali commerciali con lo Stato durante l'emergenza Covid.
Il nome di D'Alema, in questo caso totalmente estraneo alle indagini, compare anche in un'inchiesta della Procura di Roma su una truffa nella fornitura di mascherine alla Protezione civile del Lazio. I pm ipotizzano il traffico di influenze per due imprenditori di cui uno notoriamente amico dell'ex premier e leader Pds.
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