Sul volo che ha riportato Novak Djokovic verso casa c'era una certezza - la sua - ma anche tante domande sul futuro. Non riguarda solo il tennis, anche se è davvero una notizia che agli Australian Open partiti nella notte non ci sia il numero uno del tabellone. Ma è una questione più grande, in tempi di emergenza e in un'era umana in cui il dissenso ha più voce della maggioranza. Ed è anche un caso umano, quello di un grande campione che non ammette mai di essere dal lato sbagliato della vita. Così che, finendo per giocare sempre uno contro tutti, poi capita che alla fine si perda.
Novak Djokovic è stato espulso da Melbourne e dal Paese alla fine di una giornata in cui lui e i suoi avvocati si sono aggrappati con le unghie a una realtà di vetro lucidissimo. La Corte Federale, composta da tre giudici, non ha fatto altro che sancire l'ovvio: «Non sta a noi giudicare il merito, ma solo se la decisione del ministro dell'Immigrazione sia irrazionale. E non lo è». Fine della storia, visto ritirato: ma come si è arrivati fin qui? Esistono tre aspetti: personale, generale e sociale.
Il primo è la differenza che tutti hanno sempre visto tra il campione serbo e i suoi grandi rivali Federer e Nadal. Loro più amati e lui sempre in cerca di amore. Ed è troppo differente la storia familiare e sportiva di Roger&Rafa, arrivati da un ambiente benestante, educati con rispetto per loro e per gli altri, con tecnici e consiglieri giusti e amici che qualche volta ti fanno notare che magari stai sbagliando. Un'altra cosa è Novak, cresciuto a Belgrado sotto le bombe, con dei genitori - soprattutto il padre - in cerca sempre di rivincita (ieri Srdjian ha detto «Nole è stato colpito con 500 pallottole nel petto»), in un Paese di cui è l'immagine assoluta e con un clan che lo teme e lo rispetta. Diciamolo: nulla di quello che si fa, anche compilare un modulo per passare la frontiera, avviene senza il suo consenso. Un magnifico tennista, però un uomo che pensa di avere sempre contro tutto e tutti: gli avversari, il pubblico, la medicina, i governi. Tant'è che l'unica volta in cui la gente era completamente al suo fianco, la finale di New York che poteva regalargli l'immortalità del Grande Slam, ha fallito. Non era abituato.
Novak per questo è diventato il paladino dei no-vax - ed è questo il secondo punto -, finendo però per giocarsi anche il loro appoggio: era chiaro ieri, davanti al tribunale, che non fosse più una questione di principio ma solo personale. «Avete detto che è contrario ai vaccini, ma lui non lo ha mai dichiarato: perché non glielo chiedete adesso?» ha implorato il suo avvocato. Era l'ultima carta che però ha fatto crollare tutto il castello. E l'effetto collaterale è aver messo in chiaro che il mondo, davanti a una pandemia globale, viaggia e viaggerà sempre in ordine sparso: il ministro della Salute francese ha già fatto sapere che a Parigi, a maggio, Novak potrà entrare anche da non vaccinato, in un nazione che va verso l'obbligo e dove i tennisti locali devono farsi il siero per giocare. C'è logica in questo? Non c'è appunto.
E poi, infine, c'è il rispetto delle regole, anche sbagliate magari. Un'abitudine persa di cui Djokovic rappresenta l'uomo bandiera: per cambiarle si dovrebbe combattere, e invece si tenta sempre di aggirarle. L'Australia è un Paese con il 91% della popolazione vaccinata, era chiaro che Novak non potesse passare. L'Australia non è nemmeno un Paese perfetto, tutt'altro, come tutti.
Però nessuno vuol rispettare più le regole per guadagnarsi visibilità, fino a quando però si mette l'Io davanti a tutti e così alla fine vincono loro. Poi, ti resta qualcuno che ti farà credere di essere stato un eroe: ne vale davvero la pena?
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