Non è piaciuta per nulla al Nazareno l'alzata d'ingegno di Giuseppe Conte, che al grido di «voglio una donna!», come lo zio Teo in cima all'albero di Amarcord, ha rotto il patto giallorosso di azione comune sul Quirinale.
Del resto l'attivismo frenetico dell'ex premier, che cerca di prendersi la scena con proposte a effetto, e che ieri mattina ha riunito un elefantiaco vertice di partito, con i suoi innumerevoli vice più ministri e parlamentari sparsi, per mostrare di avere le redini in pugno, crea irritazione anche a casa sua: ieri la deputata Lucia Scanu ha lasciato il gruppo M5S per aderire al Misto. E non è casuale, inoltre, che Luigi Di Maio abbia tenuto a far sapere di aver disertato il summit contiano perché impegnato altrove. Un segnale in codice inviato non solo all'ex premier, ma anche a quel nutrito gruppo di parlamentari che risponde più al ministro degli Esteri che al capo politico del Movimento. Cui Conte replica spedendo la fedelissima Paola Taverna ad annunciare solennemente che «l'Italia è finalmente matura per una rivoluzione culturale e per veder salire una donna al Colle». Non la Taverna medesima, si spera: la carta «donna» serve solo, nelle intenzioni contiane, a sbarrare la strada a Mario Draghi e a tentare di adescare il centrodestra: siamo pronti a votare un nome qualunque fatto da voi, purché non sia quello di Silvio Berlusconi, troppo indigesto persino per gli stomaci forti dei grillini. A rafforzare il messaggio ci pensa il grillino Sergio Battelli, con un grido di dolore: «Se Draghi decidesse di uscire da Palazzo Chigi sarebbe un serio problema per la tenuta della maggioranza». E soprattutto, è sottinteso, per il medesimo Battelli.
Ma non è solo Conte a muoversi spiazzando il Pd, che attende la riunione di Direzione e gruppi del 13 gennaio per pronunciarsi sulla partita del Quirinale. C'è anche Matteo Renzi, che ieri ha fatto sapere che sbaglia chi pensa che Italia viva voglia fare «l'ago della bilancia»: «Noi saremo impegnati per garantire al paese un quadro istituzionale utile all'Italia, e non per inseguire interessi di bottega». Frasi sibilline, che sono state immediatamente tradotte in casa dem come il segnale che Renzi si appresti a lanciare il nome di Draghi, come unico garante del «quadro istituzionale» italiano, accompagnato dall'ipotesi di un nome «politico» per il governo che dovrà subentrare a quello dell'ex capo della Bce.
Ma anche dall'interno del Pd, unico partito che non ha immediatamente eretto barriere contro la candidatura Draghi, arrivano segnali di insubordinazione. Prima c'è stato quello di Goffredo Bettini, ormai da tempo illustre consigliori di Giuseppe Conte («Anche perché al Nazareno nessuno gli risponde più manco al telefono», ironizza un membro della segreteria dem), che tra mille convolute metafore e similitudini invoca una «soluzione di garanzia» che assicuri il dovuto ai partiti, a cominciare da quelle nomine su cui Draghi ha tagliato loro le unghie: bisogna «superare l'idea che la politica sia comunque un peso e che anche quando dimostra di essere efficiente e meritevole (per esempio a capo di alcune aziende) vada sostituita con profili tecnici». Più chiaro di così.
Poi ieri si è fatto sentire anche Andrea Orlando, che in quanto ministro (del Lavoro) è fermamente contrario al cambio di governo che l'elezione di Draghi implicherebbe.
E dunque paventa il «rischio di voto anticipato» se il premier venisse eletto e invoca «una presidenza di garanzia che non produca dei traumi», in particolare ai ministri in carica, chiedendo al Pd di «continuare a esercitare il ruolo di una forza che si pone il problema di garantire l'interesse nazionale in una fase difficile». Come dire: mettetevi una mano sulla coscienza.
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