Per il padre, Shabbar, la dignità e l'onore erano più importanti della vita di sua figlia. Per la madre, Nazia, la morte era l'unica e giusta punizione per lei che aveva deciso di indossare i jeans e amare chi le pareva. Sono le parole dello zio Danish Hasnain a riassumere in modo definitivo la barbarie che imperversava nella famiglia della povera Saman. Descrivendo il suo omicidio Hasnain lo definisce un «lavoro fatto bene». La giovane, portata al macello, è considerata pari a un maiale, un animale impuro e da sotterrare senza pietà. Saman si era innamorata di un ragazzo che non era quello che i suoi genitori avevano scelto per lei. Fu considerato peccato mortale perché disonorava gli accordi presi tra clan. Saman, uccisa dai suoi genitori perché per loro che l'hanno generata e cresciuta valeva meno della regola del clan. Saman è stata vittima di una sottocultura misogina che nel mondo musulmano è ben radicata e radicale. La stessa che ha ucciso Mahsa Amini a 22 anni soltanto perché secondo la polizia della moralità indossava il velo in modo non adeguato. I genitori di Saman e la polizia della moralità sono fanatici senza libero arbitrio, temono la loro religione più delle loro coscienze perché non sono figli, zii, madri e padri ma membri acritici di una comunità religiosa totalizzante e depersonalizzante che li libera dalla responsabilità delle scelte personali. I gruppi fanatici obbligano i loro membri a rinnegare la realtà esterna e la loro interiorità. Riescono a confinare nell'inconscio gli affetti più cari per far parte di un gruppo che non tollera le differenze e si basa su una regola ferrea: sei dentro al gruppo o ne sei fuori. Come potrebbero altrimenti un uomo o una donna decidere la fine di un figlio come soluzione alla sua ribellione? Come possono cancellare emozioni e sentimenti così istintivi? Credono di farlo unti dal Signore. Un Signore percepito come sanguinario, utilizzato per sentirsi sacerdoti di vita e di morte. Sacerdoti che in nome della religione compiono crimini contro l'umanità. Di fronte alla spietatezza dell'integralismo non dovrebbe mai essere chiamato in causa il relativismo culturale. La sottomissione e la violenza contro le donne non si può comprendere né accettare.
Perché Saman e Mahsa non siano morte inutilmente è necessario unirsi alla voce delle giovani donne che in queste settimane, a rischio della vita, sono scese in piazza per Mahsa e si sono tolte il velo per rivendicare il diritto alla vita e all'autodeterminazione. Noi per primi dovremmo schierarci a loro fianco, in nome di una libertà di cui si parla spesso ma di cui si è smarrito il significato più vero.
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