Doppia fiducia al Rosatellum. Voto da brividi per il sì finale

Scontato via libera ai primi articoli della legge. Franchi tiratori in agguato con lo scrutinio segreto

Doppia fiducia al Rosatellum. Voto da brividi per il sì finale

«Favorevoli 307, contrari 90, astenuti 9»: il primo voto di fiducia sulla nuova legge elettorale passa liscio come l'olio. Stesso film per il secondo, sull'articolo due della legge, passato con 308 «sì» e contrari calati a 81.

Fuori dal Parlamento intanto c'è la Torre di Babele delle proteste, con i passanti che guardano incuriositi il colonnello Pappalardo e il baffuto D'Alema, l'agitato Di Battista e Pippo Civati che inveiscono a turno contro il Rosatellum di fronte ai rispettivi - e sparuti - fan. Pierluigi Bersani si chiede addirittura perchè Paolo Gentiloni, che ha appena incassato la fiducia, non salga al Colle a dimettersi «visto che con 308 voti Berlusconi lo fece». Il nesso non è chiaro, visto che il voto di fiducia non prevede quorum, ma nessuno se ne stupisce.

A difendere la riforma e la scelta della fiducia scende in campo Matteo Renzi che finora, pur spingendo dietro le quinte, non si era esposto sul Rosatellum: «Lo chiamano Fascistellum: una violenza verbale inaudita e una torsione verso l'assurdo - dice - Abbiamo introdotto i collegi, invece del 100% proporzionale, dove sia l'elemento fascista sfugge». E dopo aver ironizzato sui grillini che «scendono in piazza a difendere il Consultellum cioè l'Italicum, che prima giudicavano incostituzionale», difende la scelta del governo: «La fiducia non è un colpo di mano ma una possibilità prevista dal diritto parlamentare: la usò anche De Gasperi che - lo spiego a Di Maio - non era un pericoloso dittatore sudamericano».

Gli oppositori della legge (che temono di essere penalizzati dalle nuove regole) gridano al «golpe», al «fascismo», alla «violenza contro le Camere» e chi più ne ha più ne metta. Il premier Paolo Gentiloni, messo nel mirino per la decisione di porre la questione di fiducia, tace e non mette piede a Montecitorio. «Da oggi c'è una distanza incolmabile tra noi e il governo», tuona in aula il bersaniano Alfredo D'Attorre. La rottura definitiva con gli scissionisti di Mdp, che da ieri sparano contro di lui a palle incatenate, non gli fa piacere: come si è già visto martedì sulla Legge europea, ora ogni votazione in Senato rischia di diventare una via crucis, e alla vigilia della sessione di bilancio questa non è una buona notizia per il governo. Ma la triangolazione tra Quirinale, Pd e buona parte delle opposizioni in Parlamento ha messo il governo davanti alla necessità di mettere in sicurezza la legge elettorale evitando la trappola dei voti segreti. Persino il grillino Roberto Fico ammette candido: «Il voto segreto è sempre una vergogna, perché si deve sempre avere il coraggio di parlare chiaro e di votare anche contro le indicazioni del proprio partito». Peccato che proprio il suo gruppo fosse in prima linea chiederlo.

Una volta esaurita la raffica di voti di fiducia (il terzo, e ultimo, sarà oggi) si attende con il fiato sospeso il voto finale, che sarà - obbligatoriamente - a scrutinio segreto: il margine di sicurezza, con i voti di Forza Italia e Lega, è ampio, ma nessuno se la sente di giurare sulle dinamiche che possono scattare: «Quando si tratta di legge elettorale, tanto più alla vigilia di elezioni, ogni parlamentare è tentato di votare più per salvaguardare la propria rielezione che per l'interesse generale», ammettono nel Pd. Dove qualche dissenso si è già manifestato ieri: Gianni Cuperlo ha annunciato che, «con dispiacere», non avrebbe votato la fiducia: «Penso che il Parlamento abbia il dovere di dare al paese una nuova legge elettorale. Resto però convinto che lo strumento scelto, il voto di fiducia, rappresenti un errore».

Rosy Bindi, invece, dice sì alla fiducia ma non vota la legge. Il grosso del Pd, però, vota compatto. Chiusa la partita alla Camera, il Rosatellum andrà di gran carriera al Senato, dove già si prevede un nuovo voto di fiducia.

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