"Il premier Mario Draghi ha commesso un errore di 'irritualità' che ha penalizzato la sua immagine". Il politologo Luigi Di Gregorio, autore del libro Demopatìa: Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, è convinto che "il brand Draghi" sia radicalmente cambiato nel corso delle ultime settimane.
Si spieghi meglio.
"Il brand Draghi è passato dall’essere quello di una 'riserva della Repubblica' – probabilmente la carta più importante che l’Italia potesse giocarsi in un momento così delicato – all’essere un premier che si autocandida per il Quirinale e poi finisce, volente o nolente, per fare le consultazioni per il governo successivo, prima ancora di essere eletto. Almeno, questo è ciò che trapela dalle indiscrezioni e comunque costituisce il 'percepito' più comune. Così facendo, verosimilmente, quell’aura di solennità, saggezza, equilibrio, rispetto della 'Carta' è pian piano venuta meno agli occhi di molti parlamentari e 'grandi elettori' e guardando alcuni sondaggi anche agli occhi di parte dell’opinione pubblica. L’elezione del Presidente della Repubblica – così come l’incarico stesso di capo dello Stato – costituiscono ambiti in cui la forma, i riti, le prassi contano ancora tanto. Probabilmente avrebbe solo dovuto continuare a fare il Presidente del Consiglio, attendendo un’eventuale convergenza sul suo nome da parte dei partiti, senza rendere pubblico il desiderio di andare al Colle e senza cedere irritualmente a questa sorta di 'pre-consultazioni' sul nuovo governo".
Draghi non ha voluto trattare sul premier che avrebbe dovuto sostituirlo. Secondo lei, ha sbagliato?
"Diciamo che, verosimilmente, più ha dato l’impressione di poter andare verso quel 'semipresidenzialismo di fatto' di cui parlò Giorgetti, più ha alimentato ipotesi alternative nei partiti e in alcuni leader politici. Non dimentichiamoci che Draghi è comunque 'considerato un 'corpo estraneo da molti parlamentari. Un 'commissario' della politica tollerato, ma non da tutti e non in un’ottica di medio-lungo periodo. E nel momento in cui si trasforma, più o meno esplicitamente, da Super Mario a pretendente, deve passare anche dal Parlamento, cioè dai partiti".
Crede che il premier sia stato mal consigliato dal suo entourage?
"Ho letto indiscrezioni in tal senso, ma non ho elementi per trovare uno o più colpevoli nel suo entourage. Aggiungo, per esperienza, che comunque la scelta finale non è mai in capo allo staff o ai consulenti, ma sempre al leader".
Draghi nella conferenza stampa di fine anno si è auto-candidato definendosi “nonno delle istituzioni”. È stato un errore grave?
"È stato un errore per le ragioni esposte prima. Dire che il governo ha terminato la sua missione – cosa peraltro discutibile, considerando lo stato di attuazione del PNRR e la scadenza al 2026 – per anticipare la sua disponibilità per il Colle è sembrato ad alcuni più un desiderio individuale che una disamina realistica degli eventi. In ogni caso, questa mossa non ha fatto passare l’idea che avrebbe voluto dare: quella dell’uomo a disposizione delle istituzioni, quanto piuttosto quella di un uomo che, potendo, sceglierebbe di passare da un’istituzione a un’altra…".
È stato un errore legare il futuro del governo a un'elezione condivisa del capo dello Stato da parte della maggioranza?
"Credo che fosse inevitabile. Questo Parlamento, a differenza delle elezioni precedenti per il Quirinale, non ha una maggioranza politica 'tradizionale'. Ha una maggioranza 'innaturale', vincolata a un governo di scopo e quasi di unità nazionale. Era quindi inevitabile che l’elezione del Presidente della Repubblica diventasse un banco di prova anche per la maggioranza che sostiene il governo, perché di fatto non c’è una regia politica delle operazioni fondata sui numeri in Parlamento".
Come potrebbe rimediare ai suoi errori?
"Allo stato attuale la sua candidatura non è fuori dai giochi. Se quelle mosse iniziali lo hanno penalizzato, è anche vero che le mosse dei partiti finora non hanno portato a nulla. C’è un contesto numerico e fattuale che lo rimette in gioco. Ed è altrettanto vero e noto che l’immagine, la credibilità e la reputazione dell’Italia nel mondo sono ormai abbastanza 'agganciate' alla presenza di Draghi nel novero degli attori istituzionali principali. Tradotto: non avere Draghi né a Palazzo Chigi, né al Quirinale non aiuterebbe i futuri inquilini del Quirinale e di Palazzo Chigi.
Questa però è anche la ragione per cui gli 'orfani' di Mattarella sembrano aumentare e diventare più rumorosi, scrutinio dopo scrutinio. Alla fine, la soluzione più semplice per garantire un equilibrio precario è quella di mantenere le pedine esattamente dove stanno".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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