Roma Il quantitative easing serve a dare margini di manovra ai singoli Paesi, ma i governi devono «raddoppiare gli sforzi» sulle riforme. Insomma, le mosse della Bce da sole non bastano e ieri il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si è affrettato a ribardirlo in un articolo pubblicato, non a caso, su un media tedesco.
Ma un effetto sull'economia ci sarà e ieri è stato il centro studi di Confindustria a misurare i benefici per l'italia della cura Draghi. Il mega piano di acquisto di titoli pubblici da 60 miliardi al mese secondo gli imprenditori comporterà un aumento del Pil dell'1,8% in due anni. Per le imprese il risparmio in termini di interessi sarà di 3,2 miliardi all'anno.
Le stime sono basate sulle operazioni simili effettuate dalla Fed negli Usa. Qualche margine di incertezza c'è. Negli Stati uniti, ricorda viale dell'Astronomia, c'è chi sostiene che il quantitative easing non abbia avuto effetti. «È probabile, invece, che senza il Qe i tassi Usa sarebbero stati decisamente più alti». Le operazioni messe in campo dalla Bce dagli ultimi mesi del 2014 non sono bastate. «Si è trattato finora di ammontari limitati (33 e 2 miliardi di euro rispettivamente), soprattutto per la scarsità di tali titoli».
Ora è diverso. Il nuovo piano dovrebbe dare respiro alle aziende, facilitando credito ed esportazioni. Il Pil risentirà in positivo del calo dei tassi reali, naturale conseguenza del mega piano di acquisto dei titoli da 1,140 miliardi, «per lo 0,2% nel 2015 e di un ulteriore 0,4% nel 2016». Ma l'economia italiana sarà avvantaggiata anche dall'indebolimento dell'euro, cancolato nell'11,4% «per il tasso di cambio effettivo, cioè rispetto a un ampio paniere di valute dei partner commerciali». Questo, secondo le stime, «alza il Pil dello 0,6% nel 2015 e di un ulteriore 0,6% nel 2016».
Effetti positivi anche per il credito all'economia. Confindustria stima che un calo del rendimento nominale del Btp pari a 1,1 punti fa scendere il costo del denaro per le aziende sul nuovo credito di almeno 0,4 punti percentuali nel corso del 2015. «Questa riduzione, se duratura in misura sufficiente da estendersi all'intero stock dei prestiti, determina una minor spesa per interessi per le imprese pari a 3,2 miliardi di euro all'anno».
Un effetto concreto e un cambio di passo che gli imprenditori vendono con grande favore, quasi un anticipo degli eurobond. Che avrà effetti sull'economia reale, anche facendo ripartire l'occupazione.
Ma tutto rischia di essere vanificato se i governi nazionali, in particolare quelli con problemi strutturali come il nostro, non faranno le riforme. Ieri lo stesso Draghi ha scritto un commento per il Wirtschaftswoche , settimanale economico tedesco, per richiamare i governi nazionali a non sprecare questa occasione.
Ogni Stato membro, secondo le anticipazioni dell'intervista, deve essere «nella posizione di poter trarre beneficio» dal mercato comune «per attrarre capitale e creare posti di lavoro. Per questo c'è bisogno di riforme strutturali che promuovano la competitività, smantellino la burocrazia e aumentino la capacità di aggiustamento dei mercati del lavoro».
C'è poi la frammentazione delle politiche economiche e di bilancio - citata come problema anche da Confindustria. L'unione economica si basa su un interesse comune. «Per questo ci sono argomenti di peso in favore dell'esercizio congiunto della sovranità in quest'area, nel quadro di una genuina unione economica. Un'integrazione più stretta - prosegue Draghi - consentirà anche una migliore condivisione del rischio nel settore privato».
Nel contesto di una unione economica effettiva, si può chiedere ai governi «di adottare riforme strutturali» che diano «credibilità alla loro concreta capacità di ridurre il debito attraverso la crescita».Necessario anche «un rafforzamento dei mercati dei capitali, in particolare dei mercati dell'equity; per questo dobbiamo progredire rapidamente con l'unione dei mercati dei capitali».
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