L'Europarlamento ha perso la lingua. Ma non se ne è ancora accorto. Perché la lingua parlata dagli euroburocrati è solo una: l'inglese. Certo, tutte le lingue dei Paesi membri della Ue sono ufficiali. Ma è una delle tante leggi che restano sulla carta: come è normale che sia, perché - fallito l'esperanto - la lingua delle lingue è diventata quella di Sua Maestà. E ora la Comunità Europea si trova nella imbarazzante condizione di parlare una lingua improvvisamente diventata «extracomunitaria».
Il collante, l'unica cartilagine che unisce le flotte di parlamentari che da ogni angolo dell'impero si accalcano a Bruxelles è la lingua inglese.
Una beffa del destino. Perché è proprio rispondendo a un quesito in quella lingua che i cittadini britannici hanno detto «bye bye» e acceso la miccia di una bomba che potrebbe far collassare su se stesso l'intero edificio comunitario.
La lingua della Regina Elisabetta è il primo idioma con cui ci parlano i siti istituzionali e anche quella dietro alla quale nascondono tutte le fregature più taglienti. «Il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria» non per nulla è meglio conosciuto come Fiscal Compact. Breve ed ermetico anglismo, ottimo per i titoli di giornale e perfetto per confondere le acque dei cittadini. E infatti gli inglesi - ben conoscendo la lingua - hanno pensato di non sottoscriverlo. Sarà un caso?
Intanto gli europapaveri - da ieri - si trovano a discutere, dibattere e decidere nella lingua del popolo che si è rivelato essere il loro peggior nemico. Un contrappasso dantesco nella lingua del Bardo. Un «memento» costante.
Un promemoria perpetuo che ricorderà loro che, tutto sommato, da qualche parte nell'Europa intesa come espressione geografica, c'è qualcuno che ha avuto la forza (o la follia) di sbattere la porta in faccia all'Unione Europea. E che rischia di fare proseliti. È proprio il caso di dirlo: la lingua batte dove il dente duole.
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