E ora il Niger mette a rischio i piani africani

Uscire dalla "Via della Seta" e impedire che l'Africa centrale cada sotto l'egemonia russa e cinese

E ora il Niger mette a rischio i piani africani
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Uscire dalla «Via della Seta» e impedire che l'Africa centrale cada sotto l'egemonia russa e cinese. Ecco i due dossier più importanti, su cui Giorgia Meloni può dimostrare che la visita a Washington è stata la consacrazione di un atlantismo non episodico ed estemporaneo. Intendiamoci, l'Italia è sempre stata atlantista e la più fedele alleata degli Usa in Europa. Ci sovviene, più di recente, il Berlusconi invitato a parlare a Capitol Hill nel 2006, e poi la festa che Obama organizzò per Renzi dieci anni dopo. Ma negli ultimi tempi c'erano stati segnali di scollamento, soprattutto con il primo governo Conte, e inoltre la tradizione politica da cui Meloni proviene ha sempre coltivato una sorta di «terza forzismo», e diciamo pure di anti americanismo - ancora una volta, ricordiamo che nel Berlusconi II proprio Anl frenò sulla partecipazione dell'Italia ala campagna irachena, accanto a Usa, Uk, Spagna e Polonia. Ora tutto questo sembra lasciato da parte, e non a caso sono sorti malumori dalle parti di Fdi, tanto più che il presidente americano è un democratico, pragmatico ma non per questo meno liberal, come Biden. Incassato questo sostegno fondamentale, occorre perciò essere conseguenti. Sui rapporti con la Cina, conoscendo un po' la storia della diplomazia Usa e i suoi pregiudizi, non sempre infondati a proposito dei «popoli latini», la cautela con cui, subito dopo il viaggio a Washington, si è provveduto a rassicurare Xi Jing Ping, pur comprensibile, rischia di essere valutata dagli Usa come una sorta di doppia parte in commedia. E sì che Meloni si è detta, nella intervista a Fox, «repubblicana»: ora proprio i repubblicani contestano a Biden di essere accomandante con la Cina. Sull'Africa, invece, il golpe in Niger, proprio nel momento in cui Meloni si trovava negli Usa, rischia di indebolire tutta la strategia «africana» del governo e, soprattutto, dimostra che la Russia, dal punto di vista militare, e la Cina da quello economico, stanno per controllare l'Africa, almeno quella centrale. Qui l'Italia non può pensare di giocare un ruolo di cavaliere solo, sia pure legittimato dagli Usa, che però si stanno disinteressando all'Africa. Se quasi si ritira un esercito assai più potente del nostro, come quello francese, in unarea che è stata una sua colonia per più di un secolo, cosa potranno fare le nostre forze? Qui è indispensabile far vedere che è l'Italia in quanto paese Nato a imbastire un piano per l'Africa: atlantico, non solo italiano. Resta, infine, il solito problema: senza spese militari, nessuno Stato può pianificare una politica estera credibile.

Il governo dovrà assumersi l'onere di spiegare ai cittadini che queste andranno aumentate, a cominciare dal contributo alla Nato. Altrimenti, tutti i discorsi sulla rinnovata centralità dell'Italia rischiano di suonare solo retorica patriottarda, quella che, da Crispi ai nazionalisti a Mussolini, ha inferto danni colossali al nostro paese.

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