Milano Aveva viaggiato come profugo, come profugo era stato soccorso e accolto. E sarebbe rimasto in Italia chissà quanto se un giorno per caso, vicino alla Stazione Centrale, alcune delle sue vittime non lo avessero incrociato e riconosciuto. Quel ragazzo smilzo e dimesso era il carnefice che terrorizzava il campo di Bani Walid, in Libia, torturando e uccidendo. Ieri, Osman Matammud è stato condannato all'ergastolo dalla Corte d'assise di Milano. Si proclama innocente, sostiene di essere anche lui un profugo come tutti gli altri, costretto a cercare riparo in Italia dalle guerre in Sudan e in Somalia. Ma le testimonianze di diciassette testimoni lo hanno inchiodato.
Impossibile dire quanti altri Matammud si nascondano tra i disperati che arrivano sulle nostre coste. L'infiltrazione criminale e jihadista nei mezzi che fanno la spola tra le coste africane è un fenomeno da tempo sotto l'attenzione delle nostre forze di polizia e di intelligence. Ma il caso di Matammud supera in crudezza ogni precedente. «In 40 anni di carriera non ho mai visto un orrore simile», dichiarò il procuratore aggiunto Ilda Boccassini quando venne reso noto l'arresto del giovane somalo da parte della polizia locale di Milano.
Matammud è il figlio ventiduenne di un alto poliziotto del governo di Siad Barre, ucciso nel 2011 insieme al figlio maggiore da un commando. Per tre o quattro anni dopo vaga nel Corno d'Africa. Al campo di Bani Walid sostiene di essere approdato nel tentativo disperato di raggiungere la Germania, dove nel frattempo sono approdate sua moglie e sua figlia, e questo stesso racconto fa al suo arrivo in Italia e ripete in aula al processo. Ma la realtà emersa è ben diversa: nel gigantesco accampamento libico, Matammud agiva come un feroce kapò agli ordini dei trafficanti di uomini che ne avevano il controllo. E i suoi metodi erano famigerati in tutto il campo. «Un sadico», lo definisce una delle vittime. «Quasi ogni notte veniva a prendermi per violentarmi», racconta un'altra. «Ci legava i piedi con il fil di ferro e ci teneva a testa in giù. E se urlavi, ti metteva la sabbia in bocca».
Visto nell'aula della Corte d'assise, esile e apparentemente spaurito, Matammud incarna a fatica il clichè dell'aguzzino. Lui sostiene che le accuse contro di lui sono frutto solo di rivalità di clan, perché i testimoni sono tutti della stessa tribù. E ieri, dopo la condanna al carcere a vita, dice «Spero nel cielo, sono innocente». Ma negli stessi istanti, fuori dall'aula, una decina di suoi connazionali ribadiscono le accuse contro di lui: «Mi ha legato mani e piedi e mi ha picchiato così forte che ho vomitato sangue».
Dopo la cattura, Matammud è stato processato grazie alla norma che prevede la punibilità anche di reati commessi all'estero ai danni di stranieri, se il colpevole si
trova sul territorio italiano. Gli sono stati contestati decine di episodi di torture e stupri, e un numero imprecisato di omicidi. Quest'accusa è stata derubricata in «morte come conseguenza di sequestro». Ma poco cambia.
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