Flavio Briatore, che in Inghilterra vive da vent'anni, l'aveva detto cinque mesi fa senza incertezze: vinceranno i leave, il Regno Unito uscirà dall'Europa.
Come faceva a essere così sicuro?
«Proprio sicuro non ero, ma convinto sì. Perché l'Inghilterra reale non è quella che hanno in mente gli italiani, cioè la City di Londra. L'Inghilterra è Manchester, è Oxford, sono i piccoli centri, le campagne. È il Nord del Paese dove la gente pensa che l'Europa è un posto pieno di regole, un gruppo di burocrati che ha trovato persino il modo di fissare la circonferenza delle ciliege».
Eppure il Regno Unito era fino a ieri un membro storico del progetto comunitario.
«Erano europeisti ma fino a un certo punto. E comunque l'inglese medio vedeva un'Europa fatta dalla Francia, dall'Italia, dalla Spagna e da pochi altri. Invece adesso i commenti erano sempre più scontenti, abbiamo imbarcato tutti, la Grecia, persino i paesi ex sovietici. Una parte del malcontento nasce da lì. Molti inglesi, soprattutto delle classi medie e basse, sono convinti che l'Europa gli abbia portato in casa un sacco di gente pronta a rubargli il lavoro».
Anche i sondaggisti hanno toppato, come se una certa Inghilterra fosse sconosciuta anche a loro.
«Ma no, fino a dieci giorni fa anche i sondaggi erano abbastanza concordi nel prevedere l'uscita, poi c'era stato l'assassinio della deputata che un po' emozionalmente ha spostato l'andamento dei sondaggi. Ma evidentemente l'emozione è durata poco».
Quello che colpisce è l'impermeabilità dell'inglese medio agli appelli dell'intellighentia locale e internazionale.
«In realtà per tanti aspetti loro non erano e non si sentivano Europa, basti pensare che già adesso per entrare dovevi fare la fila e tirare fuori il passaporto. C'era già un distacco, un senso di estraneità. E l'Europa per loro era solo un costo enorme che dovevano sopportare per tenere a galla Paesi con economie fragili tipo la Grecia. Ma più ancor di questo era indigeribile l'idea di mantenere queste schiere di funzionari europei la cui unica occupazione è sfornare regole e regolettine tanto assurde quanto costose. E sulle cose importanti la convinzione diffusa è che a decidere tutto è la Germania».
E quindi è scattata una forma di orgoglio nazionale verso lo strapotere tedesco?
«Sì, c'è stato anche questo. L'orgoglio nazionale da queste parti sanno ancora cos'è».
Ma non si sono spaventati per le conseguenze dell'uscita? Eppure il quadro è stato dipinto a tinte assai fosche.
«Ma questo è un popolo coraggioso. Erano perfettamente consapevoli di quello che sarebbe accaduto, sia nell'immediato che nel lungo periodo, ma non si sono lasciati spaventare. Non è un caso che la Borsa di Londra sia, tra tutte le Borse europee, quella che dopo i risultati ha perso di meno. Certo, quando la Hsbc, che è la più grande banca del mondo, annuncia di lasciare Londra, fa impressione. Ma credo che fossero preparati. Sull'altro piatto della bilancia c'era l'insofferenza sempre maggiore verso la burocrazia dell'Unione e anche verso una certa globalizzazione: contro l'invasione non tanto degli immigrati poveri ma dei ricchi russi o arabi, che hanno colonizzato i quartieri residenziali di Londra facendo salire i prezzi alle stelle e costringendo gli abitanti a spostarsi in periferia».
Il voto dimostra che lo scollamento tra classe politica e Paese reale non è un problema solo italiano.
«I politici anche qui non capiscono le esigenze della gente, hanno un loro dossier, vivono nel loro mondo, camminano su una moquette alta quattro centimetri e non capiscono che la gente per strada è incazzata».
Nei pub di campagna oggi stanno festeggiando?
«Mica solo nei pub, e mica solo in campagna. Sta festeggiando il 51% degli inglesi».
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