«Il virus c'è e lotta contro noi. Bisogna tenerlo a testa sotto. Ma non dobbiamo meravigliarci se qualche cosa va storto. È necessaria una generale programmazione degli interventi sul territorio».
Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive dell'Ospedale Sacco di Milano, a cosa si riferisce?
«Sulla scuola, ad esempio, più che preoccuparsi per i banchi e per distanziamenti dal successo improbabile, è necessario concentrarsi su prevenzione e sorveglianza sanitaria».
C'è il rischio che aprano e richiudano? Mascherine e distanziamento, non bastano?
«Una garanzia totale di sicurezza non esiste. Ci sono momenti in cui i ragazzi finiscono per ammassarsi. Già non è semplice tenerli a freno per cinque ore di lezione in classe, figuriamoci con la mascherina: nemmeno un docente riesce a sopportarla per un'intera mattinata».
E allora cosa servirebbe?
«Mi auguro che in tempi non biblici vengano adottati dei sistemi di sorveglianza rapida che consentano una veloce identificazione di un focolaio nella scuola».
I test rapidi, come quelli che adottano negli aeroporti?
«Esatto. Darebbero una maggior rapidità di azione nell'individuare e contenere i focolai».
Per la prevenzione esistono strumenti efficaci?
«Ogni plesso scolastico dovrebbe essere sottoposto al pungidito prima dell'inizio della scuola, una sorta di screening che verifica gli anticorpi di personale e studenti e ci aiuterebbe a capire cosa ci possiamo aspettare. Inoltre, andrebbe anche misurata la febbre, almeno all'ingresso di ogni istituto».
Sembra fantascienza a questo punto. Non ci sono neppure le aule.
«Infatti, i tempi sono quelli che sono. Mi preoccupa».
Quali interventi sono necessari?
«Anni fa abbiamo rinunciato alla medicina scolastica e ai programmi di prevenzione di cui si faceva carico e non l'abbiamo sostituita con nulla. È tempo di ripristinare una presenza sanitaria nelle scuole, nell'ambito di una revisione completa della medicina territoriale. Servirebbe certo assai di più dei nuovi banchi».
La situazione dei contagi a fine mese peggiorerà?
«Speravamo tutti di trovarci in una situazione migliore. Ma in altri paesi a noi vicini va peggio, anche se questo non mi consola».
I dati dicono che contagi sono importati, dai turisti.
«A Como, il 17 agosto, su 10 nuovi casi 9 erano ragazzi tornati dalla Croazia. Ma in Italia abbiamo focolai diffusi e molte persone sono asintomatiche e in grado di infettare. Dove cerchi, spesso trovi. Anche se i numeri giornalieri variano in base alla quantità di tamponi fatti, il trend non è certo una meraviglia».
Cosa serve per non finire ancora in emergenza?
«Le decisioni in una situazione di emergenza devono essere univoche. Invece siamo afflitti da regionalismo acuto. Ogni ente locale fa quello che gli pare e questo non va bene. Ovviamente, le indicazioni dal centro devono essere chiare e razionali».
Si riferisce al pasticcio delle discoteche?
«Quelle non dovevano essere proprio aperte. Il governo le ha chiuse in ritardo, ma le regioni si sono infilate nelle maglie di un regolamento che aveva previsto delle possibilità di una gestione controllata. Comunque, trovo bizzarro che il tema dominante di questi giorni siano diventate le discoteche mentre c'è ancora poca chiarezza su problemi molto più seri».
Quali in ordine di importanza?
«I trasporti, ad esempio. A settembre, tra scuole e lavoro ci sarà il mondo in giro.
E non ci possiamo permettere assembramenti, bisogna scaglionare tutto, evitare gli affollamenti delle ore di punta. E se non si può fare, bisogna decidere cosa tenere aperto e cosa no. Se non vogliamo finire come Francia e Spagna, che stanno molto peggio di noi e rischiano di andare di nuovo a sbattere, tocca organizzarsi».
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