"Esplorare è la nostra natura. Ma quel che fa la differenza è rompere con il quotidiano"

Lo psicoterapeuta e saggista in "psicologia del viaggiatore" racconta perché siamo spinti a partire: "La sedentarietà crea malessere, in viaggio si cresce"

"Esplorare è la nostra natura. Ma quel che fa la differenza è rompere con il quotidiano"
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Iniziano le partenze estive. E quest'anno tutti i dati sembrano indicare che gli italiani, siano tornati a viaggiare tanto, come prima del covid. Per moltissimi non è vacanza senza un vero e proprio viaggio. Come dice l'adagio siamo una terra di santi, poeti e navigatori... Ma forse la molla che spinge a muoversi verso mete più o meno esotiche è anche più universale e più profonda, ben radicata nell'animo umano. Remo Carulli, psicoterapeuta e autore del saggio «Psicologia del viaggiatore» (Gesualdo edizioni), che a chi si muove ed esplora è dedicato, sarà protagonista il 15 luglio a Pesaro all'Ulisse fest.

Remo Carulli qual è la molla del viaggio?

«Bruce Chatwin sosteneva che come le stelle si muovono in cielo noi per rispettare la nostra natura più profonda abbiamo bisogno di muoverci. Il malessere psicologico è legato alla sedentarietà e viaggiare ci aiuterebbe a superarlo. Su un piano più scientifico, la psicologia dello sviluppo ci dice in modo incontrovertibile che una delle tappe della crescita del bambino riguarda l'esplorazione, l'allontanamento dalla base sicura materna. Anche per questo viaggiare contraddistingue la nostra esistenza. Non possiamo vivere senza esplorare».

Che differenza c'è tra il viaggiatore e il turista a livello psicologico?

«C'è una tendenza snobistica a svalutare certe esperienze di viaggio. Io credo che non ci sia differenza e il confine è arbitrario. Ciò che conta è che in un vero viaggio deve anche esserci un movimento nell'interiorità, come ben descritto da Seneca: L'animo devi mutare, non il cielo. Serve un movimento nella mente, un'esperienza interiore. Più che turista è viaggiatore chi accetta una maggiore rottura del quotidiano».

Quel famoso libro di Xavier De Mainstre, Viaggio intorno alla mia camera, ha un suo senso...

«Lo cito nel mio saggio e cito, anche, Controcorrente di Joris-Karl Huysmans, dove il protagonista va in una taverna inglese, a Parigi, e si immerge nell'atmosfera inglese più che andando a Londra... Il viaggio richiede l'interiorità ma è anche una metafora letteraria».

Il viaggio è anche fatica ma lo facciamo ormai, quasi sempre, in quella che definiamo vacanza... C'è contraddizione?

«Il viaggio deve essere tutte due le cose. Serve una quota di fatica. Ma il viaggio restituisce, quel che restituisce dipende da ciascuno di noi e da un po' di fortuna. Affrontare il caso e la fortuna è parte della cosa... Uscire dal rassicurante, nel modo giusto, dà gioia».

Questo dipende anche dalla nostra normale sedentarietà?

«La sicurezza è un bisogno primario. Ma abbiamo anche un bisogno di novità. Serve un equilibrio e il viaggio è modalità elettiva per questo risultato».

Per questo la fine della pandemia ha spinto a viaggiare di più?

«Siamo passati attraverso uno stress giustificato dalle circostanze, ma comunque enorme. Gli effetti psicologici sono stati indubbi, con la momentanea perdita delle nostre libertà. C'è una connessione con questa voglia di movimento».

Il viaggio ci aiuta ad accettare meglio gli altri?

«Ci aiuta a metterci in gioco e accettare gli altri. Ma anche a conoscere parte diverse di noi».

Ma il desiderio di viaggiare può

diventare compulsivo?

«Può essere anche un modo di sfuggire dalle responsabilità e dall'angoscia. Per una persona che non si ferma mai, il movimento diventa la norma. E non riesce a radicarsi, o rischia di non riuscirci».

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