Capannoni adibiti a dormitori, «realizzati abusivamente ed in condizioni igienico sanitarie sotto minimo etico». Contrastano con il lusso di boutique e sfilate d'alta moda le condizioni di lavoro e di vita «degradanti» degli operai cinesi che realizzavano abiti e accessori poi venduti con marchio Giorgio Armani. Il contesto di «sfruttamento» dei lavoratori è descritto nelle 31 pagine del decreto che dispone l'amministrazione giudiziaria della Giorgio Armani Operation spa.
Negli opifici-dormitorio, cui veniva affidata in sub appalto la produzione, i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro hanno trovato una zona con i macchinari, cucine e aree adibite a mensa e soppalchi con letti e armadi. Qui gli operai, in molti casi «manodopera irregolare e clandestina», seppur «inquadrati per 4 ore giornaliere», erano impiegati anche per «10 ore giornaliere dal lunedì al sabato». Su un «quadernone» erano segnate le effettive ore lavorate. Alcuni lavoratori hanno riferito agli investigatori di percepire retribuzioni «anche di 2-3 euro orarie» o di essere pagati a cottimo «da 0,50 a 1 euro al pezzo». Il titolare cinese di una delle fabbriche ha messo a verbale «di avere prodotto circa 1.000 borse dal mese di marzo 2023» e che il suo committente (intermediario e fornitore della griffe) gli ha corrisposto «75 euro» per ogni borsa. Per fare un pezzo, occorrono 3-4 ore e l'impiego di due operai. Vivendo nell'opificio, gli operai erano «sempre a disposizione del datore di lavoro e di fatto continuamente sorvegliati», in alcuni laboratori sono stati trovati impianti di videosorveglianza. La produzione negli opifici fuori legge era «attiva per oltre 14 ore al giorno, anche festivi» e anche di notte. Gli operai erano «sottoposti a ritmi di lavoro massacranti» e in ambienti che comportavano «pericolo per la sicurezza».
Secondo i pm, che hanno visto il proprio impianto accusatorio riconosciuto dal Tribunale, l'indagine ha portato a galla «una prassi illecita così radicata e collaudata da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d'impresa diretta all'aumento del business». Nella società ci sarebbe «una cultura di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo, anche minimo, della filiera produttiva», un modo di agire «funzionale a realizzare una massimizzazione dei profitti, anche a costo di instaurare stabili rapporti con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori». Un sistema (utilizzato anche da altre case di moda che figurano negli atti) che permette di «produrre volumi di decine di migliaia di pezzi, a prezzi» così bassi «da eliminare la concorrenza». La Giorgio Armani sapeva? Da questo racconto parrebbe forse di no: «Tutte le ditte cinesi non devono figurare come aziende di produzione - ha dichiarato un appaltatore cinese -. Ricordo di un episodio, quando venne un'impiegata e ci fece nascondere, sia il sottoscritto che altri 3 o 4 imprenditori cinesi, in un angolo dell'ufficio a luci spente», perché «si presentarono degli agenti di controllo qualità di un marchio molto importante». Sembrerebbe al contrario di sì, da quanto messo a verbale da M.N.
, dipendente della società commissariata e «ispettore controllo qualità». I carabinieri in un blitz di febbraio lo hanno trovato in uno dei laboratori cinesi e lui ha «riferito di recarsi mensilmente presso quel laboratorio da circa sei mesi».CBas-LF
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