Agli occhi di Donald Trump il capo della Federal Reserve, Jerome Powell, è un dead man walking, uno zombie della politica monetaria che si aggira per le stanze di Eccles Building. Se solo potesse, lo accompagnerebbe subito alla porta senza neppure usare le (finte) gentilezze verbali con cui aveva defenestrato nel 2017 Janet Yellen, sostituita proprio con Powell. Come il latte a lunga conservazione, Jay ha una data di scadenza non proprio vicina: maggio 2026. Fino ad allora è sostanzialmente intoccabile, seppur l'epilogo è già scritto. Non lo salverà né il taglio di un quarto di punto deciso ieri, con cui il costo del denaro scende al 4,50-4,75%, né il prossimo di uguale misura che sarà verosimilmente stabilito in dicembre. Prima della fine del mandato, le vecchie ruggini fra i due continueranno però a corroderne i rapporti. Il perché è presto detto.
Da quando ha deciso di varare in settembre un jumbo cut, cioè una potatura dello 0,50 dei tassi, la Fed pareva aver messo il pilota automatico. Basandosi sull'assunto che il processo disinflazionistco è consolidato e che le attenzioni vanno rivolte al mercato del lavoro. Ma il comunicato di ieri contiene un caveat: «I rischi per il raggiungimento degli obiettivi di occupazione e inflazione sono più o meno in equilibrio». Di fatto, si evidenzia più cautela sul fronte dei prezzi rispetto a settembre. «Se l'inflazione rimanesse solida - ha avvisato Powell - potremmo allentare la restrizione monetaria in modo più lento». Sull'altro versante, a fronte di un'economia ancora resiliente, i nuovi posti creati in ottobre sono stati appena 12mila (un dato influenzato da uragani e scioperi) e i due mesi precedenti sono stati sono stati rivisti al ribasso di 112mila unità. «In caso di rallentamento dell'occupazione, potremmo abbassare i tassi più velocemente», ha aggiunto in leader dell'istituto di Washington. La Fed si muove quindi sul filo del rasoio e le attese degli economisti, legate a tassi fra il 3 e il 3,25% nel '25, non sembrano del tutto ben riposte. Anche perché Trump è l'elefante nella cristalleria in grado di mandare in frantumi la prosecuzione dell'allentamento monetario a causa di quel mix di tagli fiscali, spesa pubblica e dazi che è terreno fertile per seminare nuova inflazione. «Nel breve termine, le elezioni non avranno alcun effetto sulle nostre decisioni politiche», ha affermato Powell. Goldman Sachs ha tuttavia calcolato che solo gli inasprimenti tariffari potrebbero far risalire i prezzi il prossimo anno al 2,75-3%. Qui sta il cuore del problema. Se tassi al 3,50-3,75% sono considerati ancora «restrittivi», poiché la Fed colloca il tasso neutrale (quello che non impatta in alcun modo sull'economia) al 2,9%, cosa succederebbe se il ciclo di tagli si interrompesse prima o se il costo del denaro venisse alzato per soffocare sul nascere il carovita? Da notare che da quando la Fed ha ridotto per la prima volta il costo del denaro i rendimenti dei Bond a 10 anni sono saliti di ben 80 punti base e l'oro ha inanellato un record dopo l'altro. I mercati stanno insomma dicendo a Powell: «Stai sbagliando tutto: così inneschi una reflazione».
La vera partita comincerà quindi in gennaio con l'insediamento alla Casa Bianca di Trump. Che, prima o poi, accuserà il capo della Fed di non stimolare abbastanza l'economia come già fece durante il suo primo mandato, quando con una raffica di tweet al vetriolo lo etichettò come il «nemico uno dell'America, più della Cina» per essersi rifiutato di portare i tassi sottozero. Powell si farà da parte se richiesto dal nuovo presidente? Il diretto interessato ha risposto seccamente «no» a chi gli chiedeva se si sarebbe dimesso in caso di richiesta di Trump.
La partita riguarda anche la Bce, che potrebbe essere costretta a tagliare il costo del denaro più del previsto (dall'attuale 3,25 all'1,75% entro metà 2025) se i dazi trumpiani innescassero una recessione nell'Eurozona. Una sciagura che i governi potrebbero evitare, o attenuare, con politiche economiche finalmente più espansive.
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