Due giorni fa, dopo aver fustigato il Rosatellum al Senato, Giorgio Napolitano, ancora seduto sul suo scranno a Palazzo Madama, si è sentito rivolgere questa domanda dal senatore Ciro Falanga, avvocato e «verdiniano» di non stretta osservanza: «Caro presidente lei dice che si è persa la ragione, condivido. Ma si è persa quando con una leggina (la legge Severino, ndr) si è buttato fuori dal Parlamento il capo dell'opposizione». Preso alla sprovvista il presidente emerito ha offerto una risposta che testimonia il disagio, se non il pentimento, di un intero establishment. «Sì avvocato, purtroppo sono i problemi che crea la giuridicità astratta...». Parole che sulla bocca del personaggio Napolitano, appaiono come una mezza rivoluzione.
Varrebbe quasi la pena di citare Mao Tse-tung in questa coda di legislatura dove succede di tutto: «Grande è la confusione sotto il cielo, perciò la situazione è favorevole». In pochi mesi la sceneggiatura che ha caratterizzato venti anni di seconda Repubblica, infatti, è stata riscritta. Luoghi comuni e convinzioni hanno subito una metamorfosi e sul palcoscenico i protagonisti si sono scambiati i ruoli. Anzi, in alcuni casi, quei ruoli si sono addirittura capovolti.
Osserva Nicola Latorre, piddino e presidente della commissione Difesa, con il tono di chi guarda il mondo da lontano: «Berlusconi è diventato il riferimento dell'establishment, Renzi il movimentista e Napolitano il barricadiero: viene quasi da ridere. Sono le contraddizioni della transizione, ma non si sa davvero chi rimetterà insieme i cocci». Un'analisi che suscita ironia, o è alla base di altri punti di vista, ma che, alla fine, non è contestata da nessuno. Come potrebbe essere altrimenti. Senza Berlusconi, nel bene o nel male, il Rosatellum non sarebbe diventato legge e Mattarella, Gentiloni e Draghi, non avrebbero avuto la forza di confermare Visco a Bankitalia. Ed ancora: Renzi dopo la fase zen è tornato a fare ciò che gli riesce meglio: rottamare. Questa volta ci sono finiti in mezzo Gentiloni e Visco. Napolitano, naturalmente, si è messo a fare il rivoluzionario per non essere a sua volta rottamato. «È diventato il capo dei campesinos...», osserva con una punta di sarcasmo Annamaria Bernini. E, per dire l'ultima di ieri, Denis Verdini ha squarciato i veli dell'ipocrisia, spiegando che è in maggioranza non da ora, ma da anni. E ha sfidato la sinistra - tutta - a riproporre lo ius soli: «Io sono pronto a votarlo». Insomma, si è presentato come il campione della sinistra dei diritti.
Per cui, a ben guardare, il numero inverosimile di colpi di scena ha fatto perdere il filo del racconto. Il Cavaliere considerato paladino delle istituzioni, infatti, è un inedito. O, meglio, la sua nuova figura fa giustizia di un'immagine che gli era stata appiccicata addosso dentro e fuori l'Italia. «L'establishment che lo ha ucciso perché lo riteneva inaffidabile - disserta pensieroso Paolo Bonaiuti, per anni suo portavoce a Palazzo Chigi e ora girovago nel centrodestra -, oggi è costretto a fidarsi di lui». «È la Nemesi», sentenzia il senatore Salvatore Sciascia, amico da lunga data del Cav, quello che gli fa i conti. E anche a sinistra il giudizio non cambia, magari è condito con l'interrogativo di come ciò sia potuto accadere. «Non solo Berlusconi è affidabile - dice Luigi Marino, che da prodiano si è fatto seguace di Monti -, ma dobbiamo sperare in lui con un Renzi fuori di senno». Ancora più perplessa è la vicepresidente del Senato, Pd, Linda Lanzillotta. «Purtroppo è così - ammette con una punta di amarezza - e questo dimostra da una parte che il mondo è impazzito, e dall'altra che la sinistra è ancora affetta da quella patologia che la fa correre sempre incontro alla sconfitta». Gira che ti rigira Berlusconi si è ritagliato il ruolo di uomo delle istituzioni e di diga contro il populismo, addirittura con la benedizione della Merkel: un buon viatico per l'appuntamento del 22 novembre, quando la Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell'uomo deciderà se è stato giusto cacciarlo dal Parlamento per un problema, come dice il Nap, di «giuridicità astratta».
Inutile dire che il nuovo ruolo del Cav, è stato esaltato anche dalla tattica di Renzi che, per risalire nei consensi, è salito sull'ottovolante. Dopo una fase tranquilla, quanto innaturale, Renzi si è riproposto nel ruolo in cui si trova più a suo agio, quello del dissacratore. Non nel campione dell'anti-sistema, ma del grande accusatore dell'establishment che ha fatto fallire il sistema. E su un tema, quello delle banche, dove per Etruria e altro, si è ritrovato sul banco degli imputati. Appunto, la miglior difesa è l'attacco. Per cui l'argomento è diventato uno dei perni della sua campagna elettorale. In fondo al segretario del Pd interessava un nome diverso da quello di Visco come governatore, ma ancora di più uscire dall'angolo. «Non sono riusciti a indurre Visco al passo indietro - spiega il rottamatore redivivo - e allora lo nominano per paura. Conseguenza: Draghi dovrà dire la sua nella commissione d'inchiesta e sul tema avremo un caos nei prossimi due mesi. Contenti loro... Sarà un pezzo della mia campagna elettorale». Già, il segretario del Pd non ha intenzione di fermarsi. Anche perché le polemiche che sono scoppiate, dimostrano che buona parte dell'establishment italiano ce l'ha con lui. «La verità è - ha confidato ai suoi - che anche questa vicenda va messa in relazione al caso Consip, Banca Etruria: mi vogliono far fuori, ma ogni volta che ci provano io parlo. Usano tutte le armi: addirittura in questo caso dal tempio inviolabile, da cui non dovrebbero uscire neppure i bisbigli, in questi giorni sono pervenuti atti secretati e insinuazioni campate in aria. E naturalmente vanno solo sulla Boschi, perché hanno solo quell'appiglio. Poi ho sentito discorsi incredibili: ad esempio questa storia dell'autonomia di Bankitalia... ma se la proposta di nomina viene fatta, come si è visto, dal governo di che parliamo?! E poi capisco l'autonomia, ma questi a qualcuno dovranno pure rispondere, o no?».
Insomma, Renzi è più che convinto di essere nel giusto, specie in un momento in cui basta che nomini le banche e la gente comincia a gridarti contro. Draghi o non Draghi. E l'establishment? Il segretario del Pd ormai si è convinto che non lo avrà mai a favore. Più o meno come il Cavaliere. Da quelle parti l'unico linguaggio che intendono è quello del potere. «Qui - è la sua battuta - già tutti pensano di fare il ministro. Non hanno capito che io avrò almeno 200 parlamentari, per cui potranno pure sbarrarmi la strada per Palazzo Chigi, ma in ogni caso dovranno fare i conti con me e dirò la mia su tutto».
Berlusconi paladino delle istituzioni, Renzi nemico dell'establishment. Nel caleidoscopio di fine legislatura tutto è cangiante. Ad esempio, i grillini circondano il Senato contro la legge elettorale? Eppure trovi un Di Maio contento. «Ci hanno regalato una campagna elettorale - spiega - e non è detto che questa legge ci penalizzi: basta invitare gli elettori a mettere una croce sul simbolo 5stelle per cacciare via tutti gli altri. È marketing». O, ancora, dicono che Salvini farà vedere i sorci verdi al Cav sulle candidature? Sarà, ma sui collegi uninominali hanno già trovato l'accordo, parola del plenipotenziario del Carroccio Giorgetti: in quelli del Nord, fino all'Emilia, saranno divisi al 50%, metà alla Lega e metà agli altri; al centro, fino al Lazio, il rapporto sarà uno al Carroccio e 6 agli altri; al Sud, uno a dieci. Poi, bisognerà decidere i nomi, ma questa è un'altra storia.
Chi, invece, non cambia mai sono i democristiani: Pierferdinando Casini, ad esempio, mentre dirige i lavori della commissione d'inchiesta sulle banche, prende lezioni d'inglese. Perché? Non si ricandiderà, ma ha avuto la promessa che lo manderanno all'Onu. I democristiani non muoiono mai.
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