«La Francia è in guerra», ha detto dopo gli attentati a Parigi il presidente François Hollande. E la sua aviazione ha intensificato i raid contro postazioni in Siria dello Stato islamico, che ha rivendicato gli attacchi del 13 novembre. Si è poi scritto che la Francia entrava in guerra, quando la Francia è in guerra contro il terrorismo da almeno quattro anni. E, se sul fronte levantino l'operazione aerea a fianco degli Stati Uniti e degli alleati arabi è iniziata a settembre, in Africa occidentale l'azione militare è partita nel 2012, quando i soldati francesi hanno messo «boots on the ground» in Mali, dove ieri un albergo a Bamako è stato preso d'assalto da un gruppo affiliato ad Al Qaeda. Allora, la Francia, con il sostegno degli Stati Uniti, riuscì ad arginare il rafforzarsi di movimenti estremisti islamici innescato nel 2011 dall'instabilità libica. L'operazione Serval, che ha in parte limitato l'azione di gruppi jihadisti, è stata seguita nel 2014 dall'operazione transfrontaliera Barkhane, che coinvolge nella lotta al terrorismo Mali, Mauritania, Niger, Ciad, Burkina-Faso, 3.500 uomini, 17 elicotteri, 200 veicoli corazzati e cinque droni, scrive il Figaro. Proprio domenica dovrebbe concludersi la missione di 600 soldati francesi nel Nord del Mali, anche se l'attacco a Bamako potrebbe sconvolgere i piani di Parigi, che ieri ha inviato 40 uomini della Guardia nazionale nella città, accanto all'esercito locale e membri delle forze speciali americane. E se in questi giorni si parla con insistenza di una coalizione in Medio Oriente tra finora improbabili alleati - Russia da una parte, Francia e Stati Uniti dall'altra - Washington e Parigi già collaborano in Africa. Nel 2014, un documento della Casa Bianca ha approvato lo stanziamento di 10 milioni di dollari «per assistere la Francia nei suoi sforzi per mettere in sicurezza Mali, Niger, Ciad da terrorismo». La collaborazione in materia di intelligence si è per esempio concretizzata a settembre dello stesso anno quando i droni americani controllati da una base in Gibuti hanno ucciso in Somalia Ahmed Abdi «Godane», leader degli Al Shabaab, grazie a informazioni di intelligence francese.
Hollande ha giustificato a settembre i primi raid contro Isis citando la «sicurezza nazionale»: «Così si è costruita questa linea interventista spiega al Giornale Jean-Pierre Darnis, vice direttore del programma Sicurezza e Difesa all'Istituto Affari Internazionali di Roma - A Parigi si pensa da sempre che quel terrorismo sia minaccia diretta: la presenza di combattenti stranieri crea una dinamica di pericolo interno ed esterno che solleva la questione dell'integrazione mal gestita delle seconde e terze generazioni musulmane».
Fin dall'inizio della crisi siriana, Parigi è stata una delle voci più potenti in favore di una decisa presa di posizione dell'Occidente sia contro il regime di Bashar El Assad sia contro Isis, ma l'interventismo ha origini già nell'azione postcoloniale. «Nel 2011-2012, la Francia prende poi coscienza della minaccia terroristica in alcune zone come il Sahel. L'obiettivo diventa quello di impedire la nascita di un califfato alle porte dell'Europa. Nel Magreb, l'azione della Francia rafforza l'idea che il Paese debba appoggiare il lato giusto della storia anche nelle rivolte arabe. Parigi ha ripulito il nord del Mali, un territorio dove non vanno neppure gli americani, e fatto operazioni di controguerriglia che non faceva dai tempi della guerra d'Algeria, riaprendo basi dei legionari in Niger, aiutando Cameroun e Ciad contro gli attacchi transfrontalieri dei nigeriani di Boko Haram».
Lo stesso accade oggi in Siria, dove Parigi «da sempre guarda con simpatia a chi vuole far cadere Assad», anche attraverso il coinvolgimento di intellettuali engagé come Bernard-Henry Lévy, e le insistenze del ministro degli Esteri Laurent Fabius.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.