Come se non avesse già abbastanza guai da affrontare, un altro grattacapo piomba sulla testa della premier britannica Theresa May. Ironia della sorte, anche stavolta come sullo scottante dossier Brexit, teatro del contenzioso è la vicina Irlanda, l'isola divisa in due tra il Nord (Ulster) che è parte del Regno Unito, e il Sud indipendente della Repubblica d'Irlanda (Eire). Mentre il governo inglese arranca per trovare una soluzione alla questione del confine fra le due parti e cerca di evitare che, con l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea, venga ripristinata una barriera fisica tra «la provincia» inglese e lo Stato irlandese, il voto storico con cui la Repubblica d'Irlanda ha appena detto Sì alla legalizzazione dell'aborto ha di fatto alzato un altro muro tra il Sud (autonomo) e il Nord (britannico) dell'isola. Paradosso dei paradossi, infatti, nell'Ulster che è parte del Regno Unito vige ancora una legge di epoca vittoriana, datata 1861, che è fra le più restrittive al mondo in tema di interruzione di gravidanza e la vieta in quasi tutte le circostanze, tranne che in caso di pericolo di vita o salute mentale per la madre. Perciò la sbornia per la grande festa ancora in corso nella Repubblica, che domenica 25 maggio, tramite referendum, ha votato con il 66% dei consensi a favore dell'abolizione dell'Ottavo emendamento della Costituzione (che vietava l'aborto anche in caso di stupro e incesto, equiparando la vita del feto a quella della madre) rischia di provocare adesso un grave mal di testa a Lady May.
Le donne nord-irlandesi, e con loro molte esponenti dello stesso Partito conservatore guidato dalla premier, chiedono un cambio di rotta sull'onda del grande movimento popolare e politico che ha segnato la svolta in Irlanda del Nord. Vogliono evitare che i viaggi per poter abortire legalmente, e che finora hanno avuto come destinazione la Gran Bretagna, si trasformino semplicemente in spostamenti più brevi verso l'altra parte dell'isola, ma con lo stesso identico obiettivo: interrompere la gravidanza senza rischiare il carcere a vita per sé e per eventuali accompagnatori, come prevede il sistema penale della provincia (autonoma su questo tema), fra i più duri d'Europa.
Favorevole al cambiamento è la ministra inglese per le Pari Opportunità (responsabile anche delle Pari Opportunità) che chiede al governo di Londra di «andare incontro alle speranze» di un milione di donne dell'Ulster. Il Nord è infatti in stallo politico da gennaio 2017, quando il governo locale frutto della devolution voluta da Tony Blair nel '98, è crollato per dissidi interni. L'esecutivo di Stormont, insomma, non può chiedere all'Assemblea di cambiare la legge. La premier May potrebbe essere artefice della svolta, come le hanno chiesto 160 deputati guidati dalla parlamentare laburista Stella Creasy. Ma a quale costo? Qui nuovi guai si aggiungono ai vecchi. Perché il governo ha una maggioranza di 13 deputati e vive grazie all'appoggio esterno del Dup, il Partito Unionista fondato nel '71 da Ian Paisley, reverendo protestante intransigente contro matrimoni gay e aborto. Per seguire l'onda pro-aborto, la leader inglese dovrebbe mettersi contro il partito che la tiene in vita e che già fatica a tenere a bada sul dossier Brexit.
Ecco perché qualcuno propone di bypassare l'ostacolo tramite referendum. Nel frattempo, i burocrati del suo governo hanno stanziato 829mila sterline per le elezioni europee di maggio 2019 anche se Londra dovrebbe essere fuori dalla Ue già dal 29 marzo. Mai dire mai.
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