«Presidente Obama, te l'ho detto già una volta, o arresti Fethullah Gülen o lo rimandi in Turchia. Non mi hai ascoltato. Ora, dopo il tentativo di golpe, mi rivolgo nuovamente a te: concedi la sua estradizione, se vuoi che rimaniamo partner fai quello che è necessario». Queste parole, pronunciate a caldo da Erdogan subito dopo la repressione del putsch, e seguite dall'insinuazione di un alto funzionario che l'America sarebbe l'ispiratrice della rivolta, hanno scatenato una delle più acute crisi che si ricordino nei rapporti tra Washington e Ankara, ma ha anche sollevato un intrigante interrogativo: chi è questo Gülen, che dalla sua tenuta nella cittadina di Saylorsburg in Pennsylvania in cui vive in esilio da molti anni, avrebbe la capacità non solo di «tentare di rovesciare il governo della Repubblica turca e di impedirgli con la forza di svolgere le sue funzioni» (come si legge in una denuncia di 1453 pagine redatta nell'ottobre 2015 dalla Procura di Ankara) ma addirittura di indurre una parte dell'esercito turco alla rivolta? Gülen, un ex imam di 75 anni, venne già nel 2013 incluso dalla rivista Time nella lista dei cento uomini più influenti del mondo. Sostenitore di un islamismo tollerante, rispettoso della democrazia multipartitica e fautore del dialogo tra le religioni monoteiste, ha fondato negli anni Settanta un movimento chiamato Hizmet che si è gradualmente diffuso in quasi cento Paesi e dispone di oltre mille scuole (di cui 160 solo negli Stati Uniti). Si tratta di scuole di alto livello, che cercano di inculcare negli allievi altruismo e cultura del lavoro in una specie di versione islamica del calvinismo e hanno fatto di Gülen uno dei personaggi-chiave dell'Islam moderato, cioè uno di cui oggi si sente estremo bisogno.
La sua storia politica è complessa e articolata. Fino a quando la Turchia è rimasta uno stato laico, Gülen era all'opposizione, chiedendo maggiore rispetto per la religione, tanto che nel 1999, due anni dopo l'ultimo intervento dei militari nella politica, ritenne prudente emigrare negli Stati Uniti. Quando poi, tre anni dopo, il potere fu preso da Erdogan e dal suo «partito islamico moderato» AKP, decise di allearsi con lui nel tentativo di rimodellare la Turchia secondo i suoi principi. Per diversi anni, la vasta rete di «gulenisti» presenti nella magistratura, nella polizia, nei media e nelle Forze armate collaborò con l'AKP per affermare un islamismo soft, in armonia con lo statuto di Hizmet. Ma quando Erdogan cominciò a purgare le istituzioni dei suoi nemici e a spingere troppo sul pedale islamista, non solo l'intesa si ruppe, ma il Sultano cominciò a nutrire nei confronti di Gülen un odio crescente. Nel 2013, lo accusò di essere il burattinaio del megascandalo per corruzione che aveva coinvolto anche alcuni suoi familiari e per ritorsione arrestò, cacciò o trasferì centinaia di magistrati e poliziotti a lui legati e ne chiese per la prima volta l'estradizione agli USA come capo di una fantomatica «organizzazione terrorista gulenista». Da allora, i gulenisti di tutti i settori (che secondo stime non verificate ammonterebbero a circa il 10 per cento della popolazione) sono stati oggetto di una sistematica persecuzione: i giornali che facevano capo al movimento, a cominciare dal diffusissimo Zaman, sono stati chiusi o costretti a cambiare linea, la sua TV interdetta, molte scuole hanno dovuto chiudere i battenti. Il movimento fu ufficialmente definito «una quinta colonna al servizio di interessi stranieri». L'accusa di avere architettato il fallito golpe di venerdì notte peraltro subito sdegnosamente respinta dallo stesso Gülen è perciò solo la logica conclusione di una guerra ormai senza quartiere. La vicenda del golpe (che, secondo dichiarazioni rilasciate in un'intervista, il predicatore in esilio ritiene possa essere stato organizzato dallo stesso Erdogan per rafforzare il proprio potere) ha ora trasformato quella che era una faida interna turca in una crisi internazionale.
Per quanto l'amministrazione Obama abbia preso subito posizione contro il tentativo di colpo di Stato, Ankara ha tolto l'elettricità per 24 ore alla base di Incirlik bloccandone l'attività. Non c'è perciò da stupirsi che i segretario di Stato Kerry abbia accolto la nuova richiesta di estradizione di Gülen, peraltro non ancora avanzata attraverso i regolamentari canali giudiziari, con una certa freddezza. In realtà, che gli USA cedano all'ennesimo ricatto di Erdogan quando Gülen assume sempre più il ruolo di rifugiato politico è inconcepibile, sarebbe contrario a tutti i loro principi.
Rimane da vedere se l'organizzazione di Gülen, che nonostante le nuove purghe in corso in queste ore (si parla di 6.000 arresti e altri 6.000 in preparazione) sarà in grado di continuare la sua opposizione al Sultano, che di tutte rimane tutto sommato la più efficace.
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