La minaccia non è ancora controfirmata dal Cremlino, ma non è da sottovalutare: «Se i Paesi ostili non pagheranno le forniture in rubli, la Russia chiuderà i rubinetti del gas». Quella del parlamentare Ivan Abramov è al momento una voce isolata. A raccoglierla è però l'agenzia Ria Novosti, forse il megafono preferito di Vladimir Putin. Ed è una voce che rimbomba mentre si mettono altri mattoni al muro contro muro tra Mosca e il G7.
Le cosiddette guerre valutarie ci sono sempre state, quasi sempre sottotraccia e mai apertamente dichiarate. È l'arma più elementare per agire sulla bilancia commerciale alterando artificialmente i livelli di cambio. Questa ha la sua peculiarità nel fatto di essere l'appendice di una guerra vera, con il rublo forzatamente chiamato alle armi in uno scontro in cui nessuno vuol cedere. Non certo lo zar Vlad che, dopo essersi spinto su terreni valutari inesplorati con l'intento di sostenere la propria moneta senza calcolarne le conseguenze (ieri i prezzi del gas sono scesi ad Amsterdam del 3,6%, a 97,6 euro), non fa una passo indietro ma ne compie uno avanti: entro il primo aprile pretende che i contratti per il metano vengano onorati col versamento di rubli. E se l'Europa non ci sta, sappia che «non faremo beneficenza», ha detto seccamente il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov.
La replica è arrivata da Robert Habeck, ministro dell'Economia tedesco, nonché presidente di turno dell'organizzazione dei sette maggiori Paesi industrializzati. E non poteva che essere una: il cambio di valuta è una chiara violazione unilaterale dei contratti esistenti e questo significa che un pagamento in rubli semplicemente «non è accettabile. Il tentativo di Putin di dividerci è evidente, ma è lui ad avere le spalle al muro».
Ancora pochi giorni, e si saprà se il presidente russo fa sul serio, o se il suo è soltanto un bluff da giocatore d'azzardo in una partita in cui tutti rischiano di uscire perdenti. A cominciare dalla Russia. L'interruzione delle forniture porterebbe allo svaporamento dei circa sette miliardi di dollari che ogni mese Gazprom incassa dall'Europa.
Un danno sicuramente enorme e superiore a quello che sarebbe causato alle casse statali, sotto forma di un maggior costo delle importazioni, se le controparti accettassero di pagare in rubli il metano acquistato. Già ora, peraltro, nel tentativo di aggirare le sanzioni, Mosca sta ricorrendo a escamotage da ultima spiaggia. Uno di questi, come rivela Bloomberg, è l'oscuramento delle petroliere: la scorsa settimana, 33 di questi giganti del mare hanno spento i sistemi di bordo con cui vengono segnalate le posizioni allo scopo di non rendere tracciabili rotte e destinazioni. Dove siano finiti quei barili, nessuno lo sa.
Ma è altrettanto ovvio che anche solo un blocco parziale delle consegne di gas avrebbe effetti rilevanti sul Vecchio continente, visto che verrebbe a mancare una fetta consistente di una torta da 160 miliardi di metri cubi, quanti ne fornisce la Russia ogni anno. In caso di sospensione totale, sparirebbe la torta. E non sarebbe facile trovarne un'altra. Di sicuro, le importazioni di gas liquefatto non coprirebbero l'ammanco e si scivolerebbe pericolosamente verso una china da choc energetico anni Settanta. A quel punto una recessione severa non sarebbe da escludere.
Una ipotesi quest'ultima che, al momento, viene esclusa tuttavia da Standard&Poor's «grazie al forte slancio della ripresa e alle sufficienti riserve di liquidità». L'agenzia di rating ha, comunque, tagliato le stime di crescita per l'anno in corso, dal 4,4 al 3,3% e avverte che «l'incertezza che circonda le nostre previsioni è più alta del solito, con rischi al ribasso».
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