Generazione paninari e l'ultimo fast food: l'irripetibile arcobaleno che ostentava il futuro

Voi mettere la generazione arcobaleno con la nostra? Che faceva colazione con la coloratissima caffettiera "Banale" di Mendini, così originale da cambiare sapore al caffè, e anche al design

Generazione paninari e l'ultimo fast food: l'irripetibile arcobaleno che ostentava il futuro

Voi mettere la generazione arcobaleno con la nostra? Che faceva colazione con la coloratissima caffettiera «Banale» di Mendini, così originale da cambiare sapore al caffè, e anche al design. Caldaia oblunga, serbatoio stretto, placche d'alluminio a spicchi rossi, verdi, gialli, blu... E Cyndi Lauper cantava True Colors...

Carmina non dant panem, ma il karma degli anni Ottanta - elettronici, rizomatici, appariscenti, chiassosi, esagerati, sintonizzati h24 su Videomusic, Video Killed the Radio Stars, calze a rombi della Burlington, Drive in e una generazione libertaria ci ha dato i paninari.

Speck, fontina e rivalsa a iosa, con contorno di ottimismo, speranza, futuro e modernizzazione. Si chiama «post-moderno», qualsiasi cosa significhi. Arrivati dopo la modernità, con le Timberland ancora sporche del piombo e del sangue degli anni Settanta e con la testa piena di Tenax già nei Novanta pronti per connettersi alla Rete dal Commodore 64 al Blackberry fu un attimo - i paninari furono la griffe iconica di un decennio irripetibile, creativo, trasgressivo, irriverente, condannato a posteriori per l'insopportabile inconsistenza dell'apparire e che invece intuì perfettamente l'insostenibile leggerezza dell'essere. Gli anni Ottanta furono pacifici senza essere pacifisti, pieni di idee senza essere ideologici, ricchi senza essere volgari, ottimisti senza essere utopici, progressisti senza essere di sinistra, esplosivi senza essere rivoluzionari, new romantic senza essere mielosi. Just an Illusion.

Bye bye «galli», bye bye «sfitty» che ora avete tutti superato i Cinquanta e magari tenente ancora il piumino giallo in cantina. Il vostro McDonald's in piazza San Babila, che allora era il primo Burghy d'Italia, chiuderà per sempre. Domani finirà una volta per tutte il decennio meno lungo del secolo breve: 1982, quando nasce l'Italia migliore di sempre: Zoff, Gentile, Cabrini..., 1989, quando si spegne l'ultima nota del concerto dei Pink Floyd su una piattaforma galleggiante di fronte a San Marco, a Venezia. Come in un quadro di Magritte. Cosa vuoi di più dalla vita? Un amaro Ramazzotti.

Che poi, la «Milano da bere», e quella da vomitare, non era uno spot, ma un modo di gustare i piaceri dell'esistenza. Le lezioni calviniane, il minimalismo, la Transavanguardia, i Cabaret Voltaire, Blade Runner, la distensione, la grande nevicata del gennaio dell'85, Le mille luci di New York di Jay McInerney, la new wave italiana, il Nephenta, le modelle del Nephenta, la Yamaha XT600Z Ténéré, la perestrojka e la glasnost, Rio dei Duran Duran, Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio con le musiche di Philip Glass e Twin Peaks. Poi arrivarono le altre serie tv... Wild Boys.

Guardavamo l'anaffettivo Richard Gere di American Gigolò e volevamo fare sesso senza amare nessuno, vedevamo l'avido Gordon Gekko di Wall Street e pensavamo di potere fare soldi senza costruire nulla. E invece...

Altro che il decennio delle illusioni, dell'egoismo, del disimpegno... perché anche la plastica alla fine è un materiale nobile. La realtà è che il paninarismo, per farla finita una volta per tutte con le Timberland e il Moncler, fu l'ultimo afflato comunitario giovanile - quando ancora i ragazzi si univano in compagnie - prima della disgregazione individualistica degli anni Novanta e della solitudine di massa dei Duemila, e oltre.

I paninari, venuti su ad hamburger, i weekend a «Curma», le contaminazioni culturali e svezzati con Tetris - un videogioco che con i suoi quadratini da incastrare è una perfetta metafora della vita: scansare tutti i problemi che ti cadono addosso, uno dopo l'altro, sperando non esca Game over non si preoccupavano di nulla ma avevano tutto: la spensieratezza, la fantasia, la concretezza. Si chiama «italianità».

Avevamo il craxismo come mitografia di un decennio di spocchia e di potere, le lampade Uva che ci facevano apparire sempre abbronzati, le palestre che ci tenevano perennemente in forma... Avevamo la lira per sentirci ricchi, i videoregistratori per dare forma a una memoria frammentata, un bancomat per pagare senza soldi, il walkman per portarsi la libertà della musica in testa, avevamo la stoffa di Naj-oleari per mettere le toppe sugli strappi del terrorismo, i guanti da muratore di El Charro per rimuovere le macerie del Muro di Berlino... Avevamo, sì, la spettacolarizzazione della politica, ma non la politica come avanspettacolo come avremmo avuto poi. Avevamo persino Mister Fantasy, che a pensarci adesso era meglio di Alessandro Cattelan. Avevamo soprattutto la speranza: la generazione degli anni Ottanta fu l'ultima del '900 a essere più ricca della precedente, e non è poco.

L'amore al tempo delle discoteche, l'eterno presente della tecnologia, l'innovazione del design, la rivoluzione dell'home computer, Fade To Grey dei Visage, il bomber nero, Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, «Primo Levi's», Last Christmas e la splendida fluidità di George Michael quarant'anni prima che gli Lgbt ci scassassero i coglioni, i Duran Duran a Milano che fu la nostra Woodstock, i prodromi del berlusconismo, la moda invece che le mode... I Want to be Forever Young, e oggi invece si credono già adulti a vent'anni.

Noi siamo la generazione a cui piaceva ostentare così tanto le etichette che ne abbiamo appiccicata una gigante con scritto «Vaffanculo» sopra al fascismo, il comunismo, il femminismo, il capitalismo, l'ecologismo e pure il pacifismo, noi che abbiamo sempre preferito gli Alphaville ai Beatles. Sounds Like a Melody. Noi siamo la generazione degli Spandau Ballet che ha ballato la danza macabra sulla tomba delle ideologie del decennio precedente, la generazione che fece del cubo di Rubik la metafora del decennio - come rimettere in ordine il caos che ci avevano lasciato i sessantottini, e in media ci mettevamo 45 secondi - gli sketch di Gianfranco D'Angelo erano il nostro surrealismo, San Babila il nostro protettore, Less than Zero la nostra Bibbia e l'edonismo reaganiano la nostra religione. Cuius regio, eius deejay television.

«Desidera?». «Un «King Bacon, per favore».

Doppia porzione di rampantismo, gustoso ottimismo 100%, salsa al Narciso in un panino indimenticabile. È vero. Non avevamo né ideali né certezze, ma se ci fossero serviti sapevamo dove andarli a comprare. E Milano, fra San Babila e piazzetta Liberty, era il posto giusto.

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