Germania, l'incubo recessione non finisce. Imprese ancora bloccate nel tunnel della crisi

L'indice di fiducia Zew ha segnato un crollo record ad agosto. Nonostante l'export congelato, il governo conferma l'austerity

Germania, l'incubo recessione non finisce. Imprese ancora bloccate nel tunnel della crisi
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Macerie del tempo che fu. E cartoline dall'inferno, con la prosa secca di Achim Wambach, presidente dell'istituto Zew: «Le prospettive per la Germania si stanno sgretolando». Tira ancora un'aria gelida di recessione sul Paese, vittima del suo modello economico in cui il made in Deutschland non pompa più ossigeno nei gangli vitali del Paese e di una politica ordoliberista dove gli investimenti per sostenere l'economia restano al palo. In parallelo a una ripresa che si allontana, cresce il senso di sfiducia delle imprese. Un malessere ben misurato dall'indice Zew, crollato in agosto a 17,9 punti dai precedenti 43,7. Siamo ormai a un passo dai livelli del luglio 2022, poco prima che Berlino scivolasse nelle paludi della Rezession. Con questi chiari di luna, amplificati da esportazioni calate in giugno del 3,4% annuo e da importazioni scese del 6,4%, è probabile che nel terzo trimestre la Germania sia ripiombata in una recessione tecnica dopo aver già subito, fra aprile e giugno, una contrazione del Pil dello 0,1% (+0,2% per l'Eurozona).

Per spiegare perché l'umore degli imprenditori stia scivolando sotto i tacchi, Wambach cita i dati deludenti dell'economia statunitense (uno dei principali mercati di sbocco per l'export della Germania) e le crescenti preoccupazioni per un'escalation del conflitto in Medio Oriente. Omette di citare la Cina, dove la produzione in loco di beni più complessi ha eroso ai tedeschi significativi margini di ricavi, forse poiché il bersaglio vero è un altro: ovvero, «l'ambiguità della politica monetaria». Un peccato capitale che chiama in causa Joachim Nagel, numero uno della Bundesbank. Cioè il banchiere in prima fila nell'irrigidimento dei tassi e, di recente, il più feroce oppositore a un cambio di registro.

Benché strette nella morsa creditizia e minacciate dalle possibili eventuali ritorsioni di Pechino a causa dei dazi imposti dall'Ue sulle auto elettriche cinesi, le aziende tedesche non trovano sponda nel governo guidato da Olaf Scholz. La Bdi, omologa della nostra Confindustria, ha calcolato che per rinnovare le infrastrutture di trasporto, l'edilizia e l'istruzione occorrerebbe mettere sul piatto 400 miliardi di euro. Risorse da reperire facendo debito pubblico. Una proposta subito bocciata dal ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, che ha fatto dello schwarze null (il pareggio di bilancio) un vero e proprio totem. Da difendere fino al punto da proporre agli alleati della coalizione semaforouna duplice proposta choc: riduzione della spesa sociale e abolizione del ministero della Cooperazione allo sviluppo.

A causa di questa ossessione per la quadratura dei conti, il futuro della Germania appare gramo. Potrebbe esserlo ancor di più se l'America piombasse in recessione, in ragione dei vincoli commerciali fra i Paesi.

Di ieri la notizia che i prezzi alla produzione sono saliti negli Usa dello 0,1% a luglio, dopo il +0,2% di giugno. Un buon viatico in vista del dato di oggi sull'inflazione. Se positivo, il dato convincerebbe la Fed a tagliare i tassi in settembre per evitare un atterraggio duro dell'economia. Berlino aspetta e incrocia le dita.

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