La disperazione ha un ritmo. Ed è disarmonico, suona a volume troppo alto e graffia la vista.
Il nonno di Kevin Gentilin (morto a quindici anni in un incidente sulla sua Vespa mentre andava a scuola) ha le guance intarsiate nella magrezza, spalanca i denti in un sorriso che non può stare davvero su quella faccia e salta, canta, batte le mani, balla sulla musica techno attorno alla bara bianca del nipote sul sagrato della chiesa di Castelfranco Veneto. È una scena che respinge e ipnotizza. Non è una danza, è rabbia pura. È follia che lascia immobili. Anche se in quei gesti scomposti di nonno Gino c'è tutt'altro intento. E lo spiega, sotto alle mosse scombinate, in una lettera per il nipote scritta nella notte e letta da un parente al funerale: «Tutte le sere passavi un'oretta a salutarmi, raccontandomi la tua vita, le tue aspirazioni future. Io in silenzio ascoltavo e ti dicevo vivere, vivere, vivere. Con quanta educazione mi dicevi nonno posso mettermi il tuo profumo, il tuo gel? e via in discoteca. Quanta nuova musica mi hai fatto scoprire. La tua musica techno mi faceva impazzire, la ballavo e non sentivo stanchezza». L'età, una vita semplice alle spalle, e quel nipote che gli ha sempre concesso la grazia di voler condividere con lui. Gli è stato dietro a rotta di collo, Gino. Grato e incredulo e non equipaggiato a tutto quel «mondo giovane» in cui Kevin lo voleva con sé. Non gli importava di tutte le cose che non capiva, cercava complicità e basta. L'importante era stare insieme. Sapere che anche il ragazzo voleva sentir raccontare delle sue fatiche, della sua vita antica, dei calli sulle mani a furia di sgobbare. Sono stati assieme sempre. E tanto. Malgrado tutte le cose che li dividevano. A partire da quel nome esotico, chissà cosa avrà pensato uno cresciuto nelle campagne venete e battezzato Gino di un nipote che si chiamava Kevin con la K e non aveva neppure una vocale a chiudergli l'identità.
Eppure Gino ha sempre accolto tutto di quel ragazzo, perché un nonno è persino più di un padre. Ha ballato male la sua techno. Ma era per dire che loro erano loro. Ed era per battere i piedi sulla vita, perché quella sì che ogni tanto fa male.
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