Le giornate amare di Grasso l'«arbitro Moreno» contestato

RomaOra che la pugna sembra offrire quell'attimo fuggente di pace (apparente), quello nel quale si raccolgono cadaveri, si leccano ferite, si ragiona sul da farsi, conviene forse soffermarsi un attimo sulla figura dell'arbitro. Sulla sua fatica, la sua insostenibile leggerezza, e dunque per questa via si finisce dritti a Byron Moreno (e mai nome segnalò in maniera così assordante lo stridio tra la nobiltà del Poeta e la volgarità dell'uomo).

Eccoci al derelitto ecuadoregno Byron, cui inopinatamente il grillino Castaldi ha accostato la figura del presidente del Senato, Pietro Grasso, all'indomani dei tumulti cosiddetti «sessisti» tra senatori verdiniani e cinquestelle. Ma già qui trapela l'evidente esagerazione dei tempi che viviamo, per cui si urla disancorati da tutto quel che è passato, da ciò che nelle aule parlamentari accade da decenni, e di peggio. Non di offese sanguinose e sputi in faccia si parla: Giuliano Pajetta, per dire, era soprannominato «la tigre rossa» e il fratello Giancarlo «il giaguaro», per l'agilità negli assalti ai banchi avversari. Di badilate cruente e lanci di oggetti, era fatto il dibattito: al punto da provocare, durante un'altra maratona «alla Renzi», il 21 gennaio del '53 , dibattito sulla legge-truffa, tumefazioni sul volto dell'allora presidente del Sinedrio, Meuccio Ruini. Come raccontò il cronista dell'epoca (Ugo Zatterin), «il vecchio uomo politico non si trattiene dal farsela nei pantaloni».

Per questo - se ci si vuole chiamare «sessisti» non c'è problema, assuefatti come siamo a gestacci maschili e urla rudi, da a' frocio a culortt. .. - si capirà che l'offesa lamentata da Grasso, «e no, questo no, l'arbitro Moreno non lo merito», appare grido di dolore a suo modo sproporzionato. Richiama infatti non tanto il disastroso curriculum dell'arbitro corrotto che espulse Totti, regalò un rigore alla Corea e annullò un gol a Tommasi nella celebre partita dei mondiali 2002, e neppure la rivincita che ci prendemmo otto anni dopo, a vederlo arrestare all'aeroporto di New York con ben sei chili di droga nei pantaloni («Secondo me Moreno li aveva già nel 2002, ma non nelle mutande, in corpo...», reagì Gigi Buffon alla notizia). No: l'offesa di Castaldi a Grasso e soprattutto la reazione del presidente si giustifica soltanto in un Paese nel quale il Pallone è Totem e Tabù assieme, divinità riconosciuta universalmente. Al punto che non si sono scusati Barani e D'Anna, ma Castaldi sì, già a fine seduta, rincorrendo il presidente nei corridoi: «Se l'ho offesa mi scusi, davvero... La prego di perdonarmi».

E Grasso, nonostante lo stress dell'ennesima seduta «intensa, impegnativa e piena di tensione», è tornato a casa contento, con l'onta lavata e la coscienza alleggerita, senza l'assillo di quel gesto che da sempre accompagna l'arbitro di calcio «alla Moreno», ovvero il gesto delle corna (specie nello stadio palermitano della Favorita ). Al punto che l'arbitro De Santis, qualche anno fa, confessava che «quando in campo mi cantano: ar-bi-troo cor-nuuto , non posso fare a meno di pensare a mia moglie, sola a casa».

Ciò che resta di una querelle come tante, appetibile proprio per quel topos «Moreno» che risorge dalle soffitte della memoria, sembra essere perciò la difficoltà di essere accettati come «arbitri», oggi. Grasso, tacciato dai renziani di complotti anti-riforma, ha subito per tutta l'estate un'offensiva che non meritava.

Salvo, oggi, esser difeso da chi l'attaccava («Fa bene il suo lavoro») ed essere vituperato dalle opposizioni («Non è più super partes », si legge nella lettera spedita a Mattarella). Segno che stare nel mezzo proprio non si può. Si rischia davvero di finire cornuti e mazziati .

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