Panico. E se vincesse il no? La votazione su Rousseau è cominciata da poco quando inizia a diffondersi una voce nella truppa pentastellata. «Tanto anche con una vittoria del no, stavolta il gruppo parlamentare appoggerà Draghi», questo è il ragionamento dei governisti. L'assunto su cui si basa è abbastanza semplice. E poggia su un calcolo numerico. «Con il no si che avremmo una scissione, altro che Di Battista», spiega un parlamentare del M5s. Intanto però in serata arriva la notizia. Dopo mesi di minacce Alessandro Di Battista abbandona il Movimento. Lo fa con un video di quattro minuti. Barba lunga, maglioncino nero. Sopra il commento: «A riveder le stelle» che sa di addio. «Rispetto il voto degli elettori - spiega nel video - ma da ora in poi non parlerò in nome del M5s, perché il M5s non parla a nome mio. Questa scelta non riesco a superarla. Non posso fare altro che farmi da parte. Vedremo se un giorno o l'altro le nostre strade si rincroceranno». Ancora Dibba: «Non ce la faccio, mi faccio da parte. Non posso accettare di sedermi al tavolo con partiti come Forza Italia». Silvio Berlusconi era stato attaccato dall'ex deputato anche in mattinata. Con un articolo su Tpi in cui scriveva che a causa del curriculum giudiziario del leader di Forza Italia sarebbe stato impossibile appoggiare il governo. Non una defezione qualunque per i grillini. È un simbolo del grillismo che ammaina la bandiera. E però tra i vertici c'è la convinzione che non si sarebbe potuto fare altrimenti. Non c'era scelta.
Infatti già in mattinata, nelle conversazioni tra i grillini si riflette sul fatto che con la prevalenza dei no ci sarebbe una scissione dalle proporzioni più grandi rispetto a quella che potrebbe essere innescata ora dai ribelli. La realtà è che la frattura è ormai insanabile. Con qualunque risultato, il M5s avrebbe subito una spaccatura. Perdendo inevitabilmente dei pezzi in Parlamento. La fronda che si oppone al nuovo governo al momento conta circa venti parlamentari tra Camera e Senato. Anche se non si deciderà di dare vita a un altro contenitore, la maggior parte di questi «portavoce» potrebbe andare a ingrossare le fila del Gruppo Misto. Qualche ribelle di rito «sovranista» potrebbe pure accomodarsi all'opposizione con Fratelli d'Italia. Nonostante la netta presa di posizione di Beppe Grillo in favore del sì. I ribelli sono divisi a loro volta in «estremisti» pronti a votare contro la fiducia a Draghi e «moderati». Questi ultimi invitano al rispetto del verdetto di Rousseau. Tra di loro l'ex ministro Danilo Toninelli che dice: «Ora il voto va rispettato e tutto il M5S dovrà dare il massimo per controllare le azioni del nascituro governo e per proporre le migliori soluzioni ai problemi di tutti i cittadini italiani. Non sarà facile, ma ce la metteremo tutta». Mentre annunciano il loro no alla fiducia parlamentari come il senatore Mattia Crucioli e il deputato Pino Cabras. Anche la senatrice Barbara Lezzi potrebbe seguirli. Agguerriti il senatore Elio Lannutti e la senatrice Bianca Granato. Con loro alla Camera i deputati veneti Alvise Maniero e Raphael Raduzzi. In tutto potrebbero ballare una quindicina di voti.
Il gruppo parlamentare è diviso, seppure con proporzioni diverse rispetto alla spaccatura a metà della base. Perché sono per il sì a Draghi tutti i «governativi». Da Luigi Di Maio a Lucia Azzolina fino ad Alfonso Bonafede e a Stefano Buffagni. Buffagni è stato il primo a non porre veti sull'ex governatore della Bce. Ridotta ma combattiva la pattuglia dei frondisti. Il frontman del gruppo è Di Battista, seguito dalla Lezzi, che è la leader in Parlamento. Tredici malpancisti nella tarda serata di mercoledì hanno sottoscritto un post-lettera del deputato Pino Cabras. Nel testo si accusano i vertici di aver indetto «un voto al buio». La dissidenza però è abbastanza fluida. Colpisce invece il voltafaccia della senatrice Daniela Donno. Donno il 3 febbraio diceva: «Lo dico senza tanti giri di parole: io non voterò il governo tecnico di Draghi».
Martedì sera aveva già cambiato idea: «Voterò sì, voterò convintamente sì». E c'è l'incognita Casaleggio. Il guru, accontentato col voto su Rousseau, ha rinunciato allo strappo. Ma da oggi in poi ogni scusa sarà buona per la scissione.
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