Realismo. «Con un voto in più si può evitare la crisi martedì, ma non si può certo governare», ammette il vicesegretario dem Andrea Orlando. In vista del voto di fiducia che Giuseppe Conte vuol farsi dare a inizio settimana, per imbullonarsi a Palazzo Chigi nonostante l'uscita di Italia viva dalla maggioranza, nel Pd sale la preoccupazione. Anche perché Matteo Renzi, con l'ennesima spregiudicata mossa, ha notevolmente aumentato le difficoltà politiche di chi, come i parlamentari Pd, comincia a soffrire parecchio il ruolo di portatori d'acqua per Giuseppi. Il leader di Iv, infatti, ha annunciato a sorpresa che i suoi diciotto senatori non voteranno contro la fiducia, ma si limiteranno ad astenersi. Rendendo così assai più agevole per il premier l'obiettivo minimale di ottenere «un voto più dell'opposizione». Questa, però, rischia di non essere una buona notizia per Conte: il voto di martedì viene così privato di ogni drammaticità, tipo «oddio così viene giù tutto», e il valore di mercato dei «Responsabili» (che si tenta di ribattezzare un po' massonicamente «costruttori», non si sa di che) si abbassa vertiginosamente. «Così non arriverà nessun voto in più, mentre Renzi terrà compatti i suoi», calcolavano allarmati ieri a Palazzo Madama. «E se riesce a dimostrare che le sue astensioni, sommate ai no dell'opposizione, sono più dei voti racimolati da Conte, ha vinto lui».
Certo, dal Quirinale in giù tutti si affannano a spiegare che non è necessario raggiungere la fatidica soglia della metà più uno del plenum (161 in Senato) per ottenere la fiducia. Ma se Conte vuol dimostrare di avere una nuova maggioranza, anche senza il reprobo fiorentino, è un po' complicato farlo con numeri da minoranza. «È chiaro che martedì, se non si raggiungono comunque i 161 voti, si apre una fase assai difficile per Conte, e la nostra linea non sarà più quella perinde ac cadaver con il premier», dice un deputato dem. «Non possiamo accontentarci di sopravvivere», dice il capogruppo Delrio. Di certo nessuno, né nel Pd né tra i 5Stelle, si sta dando da fare alla caccia di transfughi: sono solo i contiani doc a occuparsene, dal capogabinetto Alessandro Goracci ai grillini giuseppisti come D'Incà e Fraccaro. Mentre tra i Dem, al di là dei proclami ufficiali sul «mai più con Renzi», di moltiplicano sottotraccia le voci di chi invita a riaprire il dialogo con l'ex premier, perché «non possiamo andare avanti con un governo aggrappato a un paio di Mastella».
E infatti Clemente Mastella, che ha capito l'antifona, avverte il premier: «Se si pensa di recuperare Renzi alle spalle dei responsabili, potreste avere delle sorprese in aula». E invece nei gruppi Pd proprio a questo si pensa, sempre più diffusamente, mentre l'irritazione verso Conte aumenta: non solo perché «Palazzo Chigi ci ha raccontato di avere già i 161, e invece non è vero», e perché Casalino detta ai Tg Rai veline un filo disperate del tipo: «Se c'è un nuovo gruppo, Conte è pronto a dimettersi e a fare un nuovo governo», onde comprare più voti di «responsabili» possibile col miraggio di una nuova girandola di posti ministeriali.
Ma anche perché si inizia a realizzare che la futura Lista Conte rischia di essere un suicidio per il Pd, e che quindi - come sintentizza un parlamentare - «non possiamo arrivare alle elezioni con Conte a Palazzo Chigi».
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