Il gran caos politica italiana. E Conte "dialoga" coi talebani

Giuseppi choc: "Parlare con loro". Pure Luigino lo scarica. Mentre Salvini fa il ministro e chiama gli ambasciatori

Il gran caos politica italiana. E Conte "dialoga" coi talebani

Uno che fa finta di essere ministro degli Esteri, convoca ambasciatori e invita gente al G20, non si capisce bene a che titolo. Un altro che fa finta di essere ancora premier, lancia il dialogo «serrato» coi talebani, che ultimamente gli hanno fatto una buona impressione, e prova a riaprire la Via della Seta ai cinesi. Un altro ancora che, non sapendo bene che linea tenere sull'Afghanistan, lancia una colletta per gli afghani e tuona contro «le guerre sbagliate dell'Occidente».

A guardare come si agitano in queste ore i vari leader di maggioranza, sembra di essere sul set di un film dei Fratelli Marx. Salvini, Conte, Letta: ognuno in cerca di un ruolo da giocare o intento a lanciare segnali a propri referenti internazionali, che non necessariamente sono quelli del Paese.

«Difficile dire chi sia più imbarazzante», confida ai suoi Matteo Renzi. E c'è da ringraziare il cielo che, a gestire la politica estera e la collocazione internazionale dell'Italia, ci sia Mario Draghi. E che anche nei loro rispettivi partiti ci sia qualcuno che prova a raddrizzare la rotta: Guerini nel Pd, Giorgetti nella Lega, persino Luigi Di Maio in M5s.

L'uscita surreale dell'ex premier Conte ieri ha suscitato un putiferio. «C'è la necessità di un dialogo serrato con il nuovo regime talebano, che si è dimostrato abbastanza distensivo», ha sostenuto in quel di Ravello, mentre i talebani sparavano sulla folla, dopo aver spiegato che il M5s «si è già mosso» e che «parte dei soldi delle restituzioni dei nostri parlamentari saranno destinati a finanziare i corridoi umanitari e l'accoglienza». Per poi lanciare quello che, secondo molti osservatori, era il suo vero obiettivo politico, ossia strizzare l'occhio a Pechino facendo capire ai cinesi (padrini del nuovo emirato) che possono contare sull'interlocutore grillino: «Russia e Cina devono sedere al tavolo».

Sul leader dei 5s si abbatte, nel corso di poche ore, una valanga di critiche: «Dire che bisogna dialogare coi talebani mentre le mamme gettano i bambini sopra il filo spinato per salvarli significa capire poco di politica estera e niente di talebani. Meno male che a Palazzo Chigi non c'è più lui ma Draghi», attacca Maria Elena Boschi da Iv. «Dichiarazioni demenziali», dice Matteo Salvini. Il Nazareno tace, imbarazzato. «Una apertura vergognosa ai talebani», insorge l'eurodeputata Pd Pina Picierno, e con lei Emanuele Fiano e Andrea Marcucci. «Parole gravi», stigmatizza Carlo Calenda. Alla fine è costretto a tirargli le orecchie persino Di Maio, nel suo ruolo di ministro degli Esteri e a nome del governo, ricordando che i talebani vanno giudicati «dalle azioni, e non dalle parole» e che una delle «poche leve» per fare pressioni su di loro è la minaccia di «isolamento internazionale» e una posizione «ferma» sui diritti umani. Altro che aperture di credito improvvisate dalla costiera amalfitana. Ad aumentare la confusione, mentre Conte lamenta di essere stato «strumentalizzato», arriva il blog di Grillo, con il post di un tal Torquato Cardilli, ex ambasciatore in disarmo, che attacca tutti i governi che hanno sostenuto l'intervento, incluso Conte (e Di Maio).

Intanto Salvini si improvvisa ministro degli Esteri e inaugura, senza che nessuno glielo abbia chiesto, una sua diplomazia parallela: telefona all'ambasciatore pakistano (protettore dei talebani) e gli dice che lo farà invitare al G20, annuncia che «sentirò gli ambasciatori turco, russo e cinese», per dir loro cosa non è chiaro. Ma anche qui arriva la strizzatina d'occhio: nel caso di Salvini non alla Cina (cui pensa Conte) ma a Putin: «Avere cattivi rapporti con la Russia non è una cosa intelligente», sentenzia. Nel governo l'attivismo di Salvini è tutt'altro che approvato, e non solo alla Farnesina: «Se ognuno si mette a chiamare gli ambasciatori come gli pare, saltano i fondamentali», dice un ministro.

Ma anche nel Pd c'è chi vive con malessere la svolta pacifista di Enrico Letta che, dimenticando di aver votato dopo l'11 settembre 2001, con Ds e Margherita, per l'intervento in Afghanistan contro la principale base del terrore islamista, ora lo bolla come «guerra sbagliata» e «unilaterale» (cioè americana). E assicura che la democrazia «non si può esportare con le armi». «Siamo tornati ai tempi di Cofferati», sospira un dirigente di area riformista.

Mentre il ministro della Difesa Guerini fa trapelare che martedì prossimo, quando riferirà in Parlamento, rivendicherà «con orgoglio la storia e le ragioni della missione italiana» e il prezioso impegno delle Forze armate durante questi venti anni di presenza in Afghanistan.

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