Alla ricerca di un «profilo di alto livello» alla cultura per il Comune di Roma, lo sconosciuto e ministro per caso, Roberto Gualtieri, oscuro funzionario del Partito Disperso, cade nei luoghi comuni del più triste capitalismo, riesumando, in modo volgare, la concezione dei beni culturali come «nostro petrolio», sostenuta in anni lontani dal socialista craxiano cui Gualtieri si ispira, Gianni De Michelis, che elaborò anche la spregiudicata (e fortunata) similitudine dei «giacimenti culturali». Imitandolo, forse inconsapevolmente, per miseria di concetti,
Gualtieri afferma che «l'assessore alla cultura è come il ministro al petrolio dell'Arabia Saudita». Ecco: il paese che lo attende. Nulla è più estraneo alla infinita varietà della bellezza di pitture, con tutti i colori, e di sculture, bianche e candide come le luce, della materia densa, nera e sporca del petrolio, che ne è la negazione. L'accostamento fetido e maleodorante di Gualtieri è quanto di più lontano dal valore simbolico e spirituale delle opere d'arte. Ha solo un significato patrimoniale, per chi intende ridurle a «cose da sfruttare».
Il passaggio, nel 1972, con l'istituzione del ministero, da «belle arti» a «beni culturali» indica questa deriva consumistica e capitalistica. Beni. Profitto. Fui io, come ignora il Gualtieri, da sottosegretario, a restituire la dignità al patrimonio artistico ripristinando le direzioni all'archeologia, alle belle arti e al paesaggio, come era nelle originarie denominazioni, poi rispettivamente traviate in beni archeologici, beni artistici, ambiente e territorio, e infine nell'orrida «transizione ecologica».
Gualtieri va oltre, nel suo scellerato e disperato ipercapitalismo, e arriva alla «transizione energetica», ignaro e ignorante di ogni vera bellezza, anche remota, da Antoniazzo Romano ad Antonio Cavallucci, di cui non conosce nulla, nella città che pretende di amministrare. Continua con similitudini e metafore tratte da mondi lontani ed estranei.
La sua ignoranza è imbarazzante. Tutto è industria e sfruttamento. Tutto è consumo. «Più si favorisce la cultura - ha detto Gualtieri - più il consumo culturale privato cresce. La concorrenza sleale si combatte anche grazie a un'industria culturale prospera. Roma deve diventare la Silicon Valley della cultura». È già inarrivabile la stolta formula «consumo culturale privato». Ma la meschinità di Gualtieri si esprime nella ingiuria e nella, vera, minaccia: «Roma deve diventare la Silicon Valley della cultura». Non solo uno slogan vuoto, ma impertinente e offensivo. Roma ha mosaici, marmi, affreschi, ceramiche, vetri, stoffe, pietre, porfidi, serpentini, le invenzioni dei Cosmati, di Bernini, di Borromini.
Gualtieri è capace di contrapporvi il silicio per microprocessori e microcomputer, attraverso l'incubatore tecnologico creato dall'Università di Stanford.
La parola Silicon si riferisce agli innovatori di chip di silicio e alla iniziale concentrazione, in quella zona della California, non di artisti (nobile parola) ma di «fabbricanti» di semiconduttori e microchip, che hanno favorito l'insediamento di aziende di computer, e di produttori di software e di fornitori di servizi di rete.
Questo è il pensiero di Gualtieri: servizi, non libertà d'invenzione. Industria, danaro, capitalismo in quella Valley, nella contea di Santa Clara. Altro che la bellezza! California, non Italia. Petrolio: Arabia saudita, non Italia. Riad, non Roma.
I riferimenti di Gualtieri non sono Giotto, Michelangelo, Caravaggio, ma Bill Gates, Jeff Bezos e altri creatori di denaro. Il suo modello politico è Salman. Lui non vuole il «museo statico», dove non è mai stato, ma l'intontimento dinamico dei computer. Non gli piace il libro, che finge di rimpiangere, ma il videogame nel quale si disorienta per scrivere banalità come: «profilo di alto livello». Certo non il suo.
Mediocre sconosciuto, di cui non si ricorda un pensiero e che è candidato a Roma, dopo aver studiato a San Marino. Iscritto, da bambino, alla Fgci, Federazione giovanile comunista, nel 1985 prese la tessera del Pci e, in seguito, ha militato per anni nei Democratici di Sinistra, con tutte le varianti: ha fatto parte prima della segreteria di Roma e poi del consiglio nazionale, prima di contribuire a redigere il Manifesto per il Partito democratico, oggi disperso e orfano di Renzi (che sostiene Calenda e non Gualtieri), e di entrare nella direzione del Partito nel 2008, contribuendo al suo declino. Un uomo libero, indipendente.
È riuscito ad arrivare, nella sua breve carriera accademica, al ruolo di professore associato. In compenso ha impegnato il suo tempo, invece che a studiare e a frequentare musei, a presiedere ben 157 triloghi (le negoziazioni inter-istituzionali tra Commissione, Parlamento e Consiglio per definire le norme Ue), il modo migliore per perdere tempo, invece che viaggiare in Italia e vedere i monumenti e le opere d'arte che ignora, e che per lui sono come petrolio.
Una malinconia senza fine. Una minaccia certa per Roma che, dopo «Mafia Capitale», potrebbe, con lui, aspirare all'ambizioso titolo di «Silicon Valley della cultura».
I romani, non siliconiani, lo fermeranno.
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