Tanti in uno. Ti viene di tradurlo così quel vecchio motto che l'aquila dalla capa bianca stringe nel rostro d'oro. E pluribus unum. È la locuzione latina che i padri fondatori hanno scelto per raccontare le tredici colonie. In un italiano più raffinato si dovrebbe dire «dai molti uno». Non cambia più di tanto il suo significato. Non fa neppure troppa differenza se si va a vedere quello che sta accadendo. I molti si sono sparpagliati e faticano a riconoscersi come figli della stessa repubblica. Non è solo una questione di singoli Stati o di latitudini, non è come con la guerra civile un confine, un Nord contro il Sud, una latitudine di cotone o ciminiere. Questa volta la schiavitù non c'entra e la linea non passa per la Mason e Dixon. È un'altra incomprensione, sparpagliata, sfilacciata, che segue magari le vecchie carcasse del fordismo e dell'industria automobilistica e vede la provincia profonda bestemmiare il centro. Non stanno più nello stesso spazio e nello stesso tempo. Non sanno più che cosa dirsi, fino a quando non sprofonderanno in una nuova guerra civile.
«Parla la tua lingua, l'americano, e c'è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza». È così che inizia Underworld di Don De Lillo. È il romanzo che seguendo le sorti di una palla da baseball narra, passando di mano in mano, l'America del secondo Novecento, inabissandosi nel sottosuolo delle cose non chiarite, il non detto, il nascosto, le contraddizioni, una manciata di complotti, interessi strabici o sovrapposti, ma riuscendo comunque a vedere una linea arabescata, una trama reale che non si perde in questo girovagare postmoderno. È naufragio e odissea ma con la consapevolezza che in qualche modo c'è un'idea di casa dove tornare. Non è questo in fondo il senso del baseball? Batti, corri e cerca di tornare a casa. È l'America. Era l'America.
Adesso invece la palla bianca con le cicatrici che segnano e cuciono il cuoio è spezzata, spaccata, sfibrata, sbaldraccata. È impazzita e soprattutto non c'è più un'idea di casa dove tornare. Quale? Dove? E in fin dei conti perché? Ora tutto questo può anche essere immaginato con la faccia da schiaffi di Donald Trump, ma le radici reali vanno ben oltre il suo personaggio. L'America profonda e periferica ha ragioni che l'America aristocratica, quella che ha il cuore al centro della Grande Mela, non riesce neppure a intravedere. Non solo non c'è empatia e sentimento. È che probabilmente non si sono mai parlati e tantomeno guardati negli occhi. Ognuno ripete la propria verità. Il gioco è perfettamente binario. Non è più necessario neppure parlare dei due vecchi partiti. Non ci sono più democratici e repubblicani. C'è chi dice «assolutamente colpevole» e chi ribadisce «persecuzione giudiziaria». Il resto è uno spazio vuoto, una terra di nessuno. L'incontro è sconsigliato. I primi vedono un ex presidente, il primo nella storia, condannato per aver pagato il silenzio di una pornostar. Vedono la rozza anomalia che sta gettando gli Stati Uniti in un incubo surreale e grottesco.
I secondi vedono nel miliardario perseguitato il destino dell'America, quella che chiede sicurezza, che se ne frega del resto del mondo, che chiude le frontiere e non si arrende alle paure di questo secolo disordinato dove ogni cosa sembra non trovarsi più al proprio posto. Tutti e due i partiti non ricordano più nulla del passato e si ostinano a non pensare il futuro. Il presente è tutto e ogni cosa che lo circonda fa paura. Basta uno sparo nel buio e si armano tutti.
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