La cultura di sinistra ha un problema, inconsapevole, con la democrazia. È una malattia che sta lì, senza dare segnali, con sintomi affievoliti, cronica, ma che si infiamma davanti a sconfitte più o meno inaspettate. Non passa in fretta e si fa insistente giorno dopo giorno. Sorpresa, sgomento, smarrimento, furore, delegittimazione. Come è possibile che abbiano vinto loro? Non sanno, non possono, non devono governare. Fino a rimarcare in tutti i modi l'impresentabilità, che poi diventa allerta e rischio per il futuro della comunità. L'esito delle elezioni viene così rappresentato come un vago ritorno al regime. Il processo può durare anni e si conclude con la caduta degli «impostori».
Attenzione, a alimentare questo fenomeno non sono più di tanto gli avversari politici, che un po' ci giocano ma mostrano di non crederci fino in fondo. A raccontare questa storia ci sono i chierici, con il fervore dei predicatori, che non solo ci credono tanto da cercare in ogni modo un martirio teatrale, ma non ammettono che qualcuno possa non riconoscere quello che loro vedono al di là di ogni ragionevole dubbio. La realtà è incontrovertibile e chi la mette in discussione è in mala fede. Non solo non è ammesso il dubbio, ma negare quello che deve essere evidente è un peccato, una bestemmia, un'eresia. C'è infatti un sentimento quasi religioso nello scomunicare i vincitori e si arriva a mettere in dubbio il senso di questa democrazia. Il ragionamento più o meno è questo: se il voto ha portato al governo questi qui significa che c'è un errore di sistema o un peccato originale. Si sottolinea l'anomalia dei troppi astenuti o non votanti. Si mette in discussione, tirando in ballo i diritti dell'umanità, la legge elettorale e le sue metamorfosi troppo frequenti. O, semplicemente, si dice che quelli lì non possono governare perché non hanno un marchio doc. Tutto questo va oltre le legittime critiche politiche a un governo che fa i suoi errori e le sue castronerie. La condanna è a priori e assoluta, va al di là della normale dinamica tra maggioranza e opposizione. È metastorica e metafisica e in quanto tale non ha bisogno di dibattito parlamentare. L'azione si svolge tutta nelle piazze e quello che si chiede continuamente al capo del governo è l'abiura.
Tutto questo non arriva però dalla frustrazione. È qualcosa di molto più profondo. È una frattura culturale con la democrazia dei moderni. È uno strappo che assume le sembianze di una questione etica, ma che in realtà si fonda su un'altra idea di democrazia. Quella che per brevità si può definire occidentale, basata sul suffragio universale, fa votare e candida tutti quelli che ne hanno i requisiti. Non lascia fuori quelli che producano armi, i cacciatori, quelli che se ne fregano dell'ambiente, sciovinisti, diffidenti, troppo poveri e troppo ricchi, miliardari e nullatenenti, abortisti e antiabortisti. L'importante è che queste idee non siano contro la legge. La sinistra invece ritiene che siano legittime solo idee e sensibilità «canoniche». Il canone non è la legge. È un pensiero certificato.
La democrazia del canone ha radici antiche. È la democrazia di Platone. È la democrazia che affida il governo ai filosofi. I filosofi poi saranno i Puritani, il Partito, la Scienza o i Giusti. Magari ci sta. Solo che questa non è democrazia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.