«Questa è una vicenda in cui ciascuno di noi ha perso una parte di sé e ogni giorno si chiede se tutto questo dolore poteva essere evitato» scrive Annamaria, ex infermiera, figlia di Antonio, morto di Covid19 il 10 marzo a Seriate. Dopo 13 pagine di ricostruzione dettagliata del calvario del padre, la richiesta ai magistrati di accertare «se il decesso sia riconducibile alla mancata adozione, da parte di chi vi era tenuto in forza di legge, delle prescritte misure di protezione e prevenzione atte a contenere la diffusione del virus pandemico». La sua è una delle cinquanta denunce contro ignoti depositate ieri alla Procura di Bergamo da parte di altrettante famiglie delle vittime del Coronoavirus. Ma in preparazione ce ne sono almeno il triplo, del resto i morti in Italia sono più di 34mila, quindi i famigliari coinvolti sono decine e decine di migliaia. E dopo lo strazio e il senso di abbandono da parte dello Stato, i parenti si sono organizzati, spontaneamente, per chiedere che si faccia luce su quanto è successo. Si sono ritrovati leggendo per caso una storia identica alla propria, nella pagina Facebook Noi denunceremo-Verità e giustizia per le vittime di Covid-19, che già conta più di 57mila iscritti.
A scorrerla è una lunga sequenza di foto di nonni, padri, madri, fratelli e di racconti molto simili tra loro. I primi sintomi di febbre scambiati per una normale influenza trattata con tachipirina, poi il peggioramento, le attese infinite negli ambulatori, il tempo perso nella macchina inceppata della sanità, il ricovero, il tampone che rivela quel che già si sapeva, l'agonia in ospedale, il tunnel dell'intubazione o della Cpap, l'impossibilità di stare vicino o anche solo di parlare al telefono, infine la morte in solitudine. «Raccogliere questa denuncia collettiva ha un effetto emotivo devastante perché in ogni racconto riconosco una parte di dolore che ho vissuto pure io. Ora sarà la magistratura a individuare eventuali responsabilità e colpevoli» racconta Consuelo Locati, uno degli avvocati che segue la battaglia di verità delle famiglie delle vittime, tra cui lei stessa. L'idea di raccogliere le testimonianze in una pagina social è stata di Stefano Fusco, 31 anni, e di suo padre Luca, presidente del comitato, dopo la morte del padre e nonno Antonio, «una persona di 85 anni, sana per la sua età, che è entrata con le sue gambe in una clinica per fare della riabilitazione e ne è uscito in una cassa di legno». La loro è l'esperienza comune a tutti gli altri, come Laura Silvestri, che stringe la foto del padre morto a Leggiuno in provincia di Varese: «Papà aveva la febbre ma per una settimana nessuno è venuto a visitarlo, quando la dottoressa ha ordinato il ricovero per un'infezione alle vie respiratorie ho visto salire mio padre sull'ambulanza con le sue gambe, me l'hanno riconsegnato in un barattolo. Ora le sue ceneri riposano nel salotto di casa di mamma». Lo stesso dramma che ha vissuto Diego Federici, che ha perso padre e madre, entrambi «sanissimi, senza alcuna patologia», un'altra costante in molti racconti ora diventati denunce.
I parenti chiedono «giustizia, non vendetta», vogliono che siano chiarite le responsabilità di un sistema «che pensavamo ci avrebbe protetto ma che in realtà ha fatto acqua da tutte le parti», chiedono di poter incontrare il presidente della Repubblica. «Vogliamo sapere se si poteva fare qualcosa e se si poteva e qualcuno non l'ha fatto, allora è colpevole» dice Fusco, ma non si riferisce a medici e infermieri.
L'errore più grave nella lunga catena di errori contestata dai parenti è quello di non aver creato le zone rosse nella provincia di Bergamo. Esattamente ciò su cui indaga la Procura, che su questo ha appena convocato premier e ministri.
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