I militari birmani sparano ancora sulla folla. Giovani in prima linea: "Non abbiamo paura"

Dall'inizio del golpe e della repressione ammazzate almeno 737 persone

I militari birmani sparano ancora sulla folla. Giovani in prima linea: "Non abbiamo paura"

Continua a scorrere sangue in Myanmar. Nella città di Mogok, a Nord di Mandalay, le forze di sicurezza hanno fatto fuoco contro i manifestanti. «Stavamo protestando quando all'improvviso un centinaio di uomini della giunta sono arrivati e hanno iniziato a sparare, uccidendo almeno tre persone», ha raccontato un testimone ai media locali. In un video postato su Twitter si vedono i corpi di due ragazzi senza vita mentre vengono portati via dalla polizia. In un altro si vede un uomo colpito alla gamba trascinarsi per strada alla ricerca di un riparo.

Fino ad ora la brutale repressione dei militari verso la popolazione civile che si batte contro il colpo di Stato del 1° febbraio, ha causato la morte di almeno 737 persone. Ma il numero effettivo delle vittime potrebbe essere molto più alto. Tanti attivisti dopo il loro arresto sono spariti nel nulla. «Non ho più notizie di alcuni miei amici da quando l'esercito li ha prelevati dalle loro abitazioni all'inizio di aprile», racconta al Giornale Peter, 22 anni, di Thingangyun uno dei distretti più infuocati di Yangon , che è attualmente ricercato dai militari e si è dato alla macchia. «Inizialmente manifestavamo pacificamente, ma poi, quando hanno iniziato ad ucciderci, ci siamo organizzati per provare a difenderci». Il giovane è uno dei tanti «frontline defenders», ovvero i ragazzi che si mettono nelle prime linee delle manifestazioni con scudi ed elmetti, che organizzano barricate e che ultimamente rispondono agli uomini della giunta con fionde, sassi e fuochi d'artificio. «Non ho paura e continuerò a combattere fino alla fine perché non voglio che le prossime generazioni vivano sotto la dittatura militare», aggiunge.

A sostenere questi giovani impegnati contro il golpe, ci sono anche numerose persone che hanno dovuto lasciare il Myanmar anni fa. Una di queste è Ursula, 42 anni, che si è trasferita a Singapore nel 1992 e che oggi aiuta finanziariamente i manifestanti. I suoi genitori erano docenti all'Arts and Sciences University di Yangon il più grande ateneo del Paese durante la rivolta del 1988 e sono stati cacciati dall'università per aver supportato la protesta. «I militari ci tenevano sotto controllo, la situazione era insostenibile e appena siamo riusciti ad avere dei passaporti siamo scappati», ci racconta. «Quando c'è stato il golpe ero molto triste e mi sono sentita in dovere di fare qualcosa per appoggiare il mio popolo, così ho organizzato una raccolta fondi e attraverso alcuni amici e familiari che vivono nel Paese ho contribuito ad equipaggiare i ragazzi in prima linea, oltre che a sostenere alcune persone in difficoltà economica».

Ursula, ingegnere che ricopre un ruolo di direttore per una società di ricerca e sviluppo,

nonostante la brutale repressione dei militari vorrebbe partecipare alle proteste. «Mi spezza il cuore essere qui al sicuro, vorrei scendere in strada anche io a manifestare per liberare il Myanmar dalle grinfie di questi mostri».

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