Più si avvicina inesorabile l'apertura formale del semestre bianco e più si va stringendo l'imbuto per il quale devono e dovranno passare tutte le questioni politiche più delicate e, dunque, più divisive. Con buona pace di Palazzo Chigi che è ormai sotto assedio da settimane, nonostante sarà solo da martedì prossimo - il 3 agosto - che il presidente della Repubblica non avrà più il potere di sciogliere le Camere. Il che equivale di fatto a congelare per sei mesi l'attuale Parlamento, senza più il rischio che le guerre incrociate e le insofferenze personali tra i leader che sostengono la maggioranza possano sfociare nelle temutissime elezioni anticipate. È evidente, dunque, che il rischio di una sorta di «liberi tutti» è altissimo, per alcuni addirittura scontato.
Lo sa bene Mario Draghi che, non a caso, ha preteso di portare a casa la riforma della Giustizia prima che scatti la tagliola del semestre bianco. Ha faticato non poco, arrivando a mettere sul tavolo le sue dimissioni, un'ipotesi che deve essere stata concreta se ha ritenuto opportuno metterne informalmente al corrente il Quirinale. Un braccio di ferro durissimo quella sulla riforma Cartabia, per giunta per portare a casa solo un via libera in prima lettura alla Camera. E a testimonianza di quanto il momento sia particolare c'è la convocazione di Montecitorio per oggi - domenica 1 agosto - proprio per riuscire a chiudere la pratica entro martedì, mercoledì al massimo.
Bastano queste ultime due settimane di scontro all'interno della maggioranza, dunque, a capire quanto sarà accidentato il percorso dei prossimi mesi. Dopo l'estate, infatti, la riforma della Giustizia arriverà al Senato e - visto cosa è successo in seconda lettura con il ddl Zan - non è scontato che il percorso sia tutto in discesa. Anche perché tra il 15 settembre e il 15 ottobre ci sarà una tornata amministrativa pesante, con al voto città come Bologna, Milano, Napoli, Roma e Torino. E subito dopo l'agenda della politica non concederà pause, perché è evidente che inizieranno le grandi manovre per l'elezione del successore di Sergio Mattarella, appuntamento in calendario nella prima metà di gennaio.
A questa corsa a ostacoli vanno aggiunte le guerre di posizione tra i vari leader della maggioranza allargata che sostiene Draghi. Quello tra Matteo Salvini ed Enrico Letta, per dire, è ormai un conflitto permanente che più si acuisce e più destabilizza i delicati equilibri che tengono in piedi il governo. Per non parlare della diffidenza tra Matteo Renzi e il segretario dem, che sempre dopo l'estate correrà per un seggio alla Camera a Siena, dove Italia viva potrebbe giocare un ruolo decisivo. Poi ci sono le frizioni interne ai partiti, quelle dentro la Lega e dentro il Pd. Per non parlare di un M5s dilaniato, con Giuseppe Conte - ormai agli stracci con Luigi Di Maio - che ha come unico faro quello di far saltare l'ex numero della Bce.
Insomma, si rischiano mesi politicamente incontrollabili, con i partiti che sostengono la maggioranza che toglieranno la giacca di governo per indossare la felpa di lotta. Draghi ne è ben consapevole e non ha intenzione di prestarsi oltre il limite del ragionevole. Se la rissa diventasse permanente - ha fatto sapere ai suoi interlocutori istituzionali - è pronto anche al gesto estremo già ipotizzato durante lo scontro sulla giustizia. D'altra parte, ne va della sua credibilità. Perché la politica italiana può essere così conflittuale - e cieca - da logorare perfino un profilo come il suo, certamente l'italiano più apprezzato all'estero. Scenario che, spiega il ministro Renato Brunetta, non si realizzerà mai semplicemente perché «usurare» l'ex numero uno della Bce significherebbe «la bancarotta del Paese».
Di certo, Draghi ha ben chiaro che ci sarà un equilibrio nuovo. Che potrebbe diventare insostenibile se ci fosse anche un cambio della guardia sul Colle. Non è un caso che, alcune settimane fa in privato, il premier ci abbia tenuto a dire che è proprio Mattarella il garante del lavoro che sta facendo a Palazzo Chigi. Un ragionamento che il suo interlocutore ha interpretato come un auspicio.
Che un peso lo ha se la prassi istituzionale prevede che quando viene eletto un nuovo capo dello Stato il premier si presenti al Colle per le cosiddette «dimissioni di cortesia» (che non furono tali per il governo Scelba, quando nel 1955 venne eletto Giovanni Gronchi).
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