Ormai è Storia che non è merce per la polemica politica, ma semmai fornisce spunti di riflessione per comprendere i tortuosi sentieri del Potere nel nostro paese ai tempi di King George, perché in molti hanno paragonato gli anni di Giorgio Napolitano al Quirinale ad una monarchia.
Nel luglio del 2020 scrissi proprio su Il Giornale di un episodio significativo che mi fu raccontato da uno dei protagonisti: naturalmente con il Re ancora in vita l'interessato ne aveva perso memoria. Riguardava una visita dell'allora Capo dello Stato nello studio dell'avvocato Franco Coppi nel quartiere Parioli. Il penalista aveva difeso Silvio Berlusconi nel processo che determinò la sua condanna, la conseguente decadenza da senatore, l'allontanamento per diversi anni dalla politica e la pena ai servizi sociali di Cesano Boscone. Si trattava in quei frangenti di individuare una via d'uscita visto che il Cav, peraltro a ragione, considerava la sentenza ingiusta, l'ultimo atto di una persecuzione politica nei suoi confronti.
L'unica soluzione possibile era la concessione della grazia da parte del Capo dello Stato. Il Nap confidò al penalista in quell'afoso pomeriggio di agosto del 2013 che era possibilista ma solo ad una precisa condizione: Berlusconi, all'epoca leader del centro-destra, avrebbe dovuto annunciare pubblicamente in maniera solenne il suo ritiro dalla politica. Insomma, si chiedeva al Cav la resa, un atto di sottomissione. Ovviamente, non se ne fece nulla perché Berlusconi considerò simile imposizione ancora più inaccettabile della condanna, ma a dieci anni di distanza quella vicenda è la dimostrazione forse più lampante di come all'epoca Napolitano, capo dello Stato nonché presidente del Csm, fondò il suo Potere anche sull'influenza che poteva esercitare sui giudici, su un processo di trasformazione, francamente patologico, delle nostre istituzioni nelle quali mentre era garantita l'autonomia della magistratura dalla politica, la politica si trovava ad essere sempre più succube delle toghe. Al punto da infiltrare nel nostro sistema comportamenti, interpretazioni del diritto, prassi più propri di un regime che non di una democrazia. E già, Napolitano fu un presidente interventista, regnò sulle istituzioni più che esserne un garante. Si sbarazzò dell'ultimo governo guidato dal Cavaliere, frutto di elezioni plebiscitarie, giocando di sponda con le cancellerie europee, con la Merkel e Sarkò. E disgregò la maggioranza di centro-destra seducendo Gianfranco Fini con l'idea di una sua possibile successione a Berlusconi. Da direttore del Tg1 - altro aneddoto - ho ricevuto ben poche telefonate dai politici ma una mi arrivò direttamente dal Quirinale senza passare per il centralino. Alzai la cornetta del telefono e mi ritrovai ad interloquire direttamente con Napolitano che mi contestò l'uso dell'espressione «ribaltone» a proposito del tentativo di Fini e dei suoi, eletti nelle liste del Pdl capitanate dal Cav, di provocare la crisi di governo. Gli chiesi, non senza una punta d'ironia, quale altra parola avrei potuto usare per descrivere un'operazione del genere visto che era stato lo stesso Fini a coniare quel termine quando Umberto Bossi silurò il primo governo Berlusconi. Non la prese bene. E il primo segnale arrivò due settimane dopo: l'allora capo dello Stato invece di dare un'intervista al Tg1, il telegiornale istituzionale per eccellenza con il più alto share, la diede al Tg2, che aveva un terzo se non un quarto di telespettatori. E visto che King George ha sempre avuto una memoria da elefante, sarà stata una coincidenza, un mese dopo le dimissioni del Cav da premier fui cacciato dal Tg1. Ovviamente il pretesto non poteva non essere giudiziario, lo strumento di Potere del Re. Napolitano, mi si conceda la battuta, poteva contare più sulle toghe che sui corazzieri.
Da lì cominciò il mio calvario. L'accusa era di aver utilizzato in maniera scorretta la carta di credito aziendale. Insomma, i soldi, quelle colpe che ti espongono al pubblico ludibrio, come capitava ai dissidenti in Unione sovietica o, ancora oggi, nella Russia di Putin. Fui assolto in primo grado, dalla Corte dei Conti, dal giudice del lavoro, dall'Ordine dei giornalisti, ma ebbi la malsana idea da senatore di teorizzare l'impeachment del Nap per le stranezze che accompagnarono la crisi del governo Berlusconi e per la distruzione delle registrazioni delle telefonate tra Nicola Mancino, ministro dell'Interno ai tempi della trattativa Stato-mafia, e il consigliere giuridico del Quirinale. Nella storia del Paese furono le uniche ad essere distrutte per volontà del Re, nell'epoca in cui le intercettazioni erano considerate, nei tribunali e nelle procure, sacre come i versetti della Bibbia. E visto che l'Elefante regale non dimentica mi ritrovai come giudice in appello un magistrato che era stato per dodici anni deputato e senatore del Pd, ma, soprattutto, sottosegretario di Napolitano al ministero dell'Interno: in quattro ore la sentenza di assoluzione fu «ribaltata». E poi - visto che da quelle parti sono meticolosi - in Cassazione mi capitò come relatore l'ex-capo di gabinetto del ministro della Giustizia dell'ultimo governo Prodi, che subito dopo, dal 2008 al 2013, aveva lavorato gomito a gomito negli Stati Uniti con l'ex-sottosegretario del Nap: erano gli unici due magistrati che avevamo oltreoceano, uno consigliere giuridico dell'ambasciata italiana, l'altro consigliere della delegazione italiana all'Onu. Inutile dire che avevano ottenuto quei ruoli anche grazie all'interessamento del Quirinale: da quelle parti avevano una particolare abilità nel giocare con le carriere dei magistrati degna dei prestigiatori. Io, invece, condivisi il destino del Cav ai servizi sociali, togliendomi però una soddisfazione: l'assemblea di Palazzo Madama respinse la richiesta di decadenza da senatore giudicando la sentenza che mi aveva condannato una mezza persecuzione. Racconto questi aneddoti e queste storie senza rancore. Napolitano in fondo è stato solo o soprattutto un uomo di Potere. Educato alla scuola di Botteghe Oscure. Convinto seguace degli insegnamenti del Machiavelli per cui il fine giustifica i mezzi.
Si tratti della difesa dell'intervento sovietico in Ungheria, oppure della liquidazione di un governo votato dagli elettori. Un protagonista del Palazzo, intriso di retorica e di ipocrisia, persuaso in coscienza di fare il bene del Paese. Questa è l'unica scusante che si scorge a malapena dietro le spesse lenti dell'ideologia.
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