In tutta Italia stanno per scendere sul piede di guerra i ricercatori universitari, una categoria in cui si includono sia quanti sono ormai «strutturati» (assunti a tempo indeterminato, anche se al primo livello della carriera accademica), sia quanti invece operano in università soltanto grazie a borse e assegni.
All'origine di questa reazione veemente è l'ultima riforma varata dalla ministra Anna Maria Bernini, accusata di peggiorare la situazione precaria dei giovani professori di domani, poiché le nuove norme prevedono una varietà di rapporti a termine.
In realtà l'imputazione è infondata, dato che il governo ha soltanto messo più strumenti a disposizione e non c'è scritto da nessuna parte che si tratterà di fasi che dovranno succedersi una dopo l'altra durante il percorso di ogni giovane.
Indubbiamente, ancor più che in altri contesti, in Italia la carriera universitaria è lunga e spesso genera frustrazioni e insuccessi. Molti ricercatori si stabilizzano oltre i quarant'anni e altri non ci riescono proprio. Questo, però, si deve alle scelte di coloro che gestiscono le università (i professori, in sostanza), che spesso generano attese destinate a trasformarsi in illusioni.
Come ha rilevato sul Sole 24 Ore il direttore generale del Politecnico di Torino, Vincenzo Tedesco, ogni ateneo deve ora «effettuare una programmazione ragionata delle risorse umane, finanziarie e delle varie opzioni offerte, in modo da essere in grado di soddisfare tutte le esigenze»; e la cassetta degli attrezzi allestita dal ministero con i suoi strumenti differenziati (dal «tutor» affidato allo studente fino ai contratti attribuiti a quanti già un dottorato) punta proprio a quella responsabilizzazione delle singole università su cui insiste il governo.
Va detto che le risorse messe a disposizione del Pnrr hanno il peggiorato il quadro.
Non soltanto abbiamo un debito ormai vicino ai 3 mila miliardi di euro (e gli interessi da pagare riducono le risorse a disposizione), ma la stagione degli aiuti straordinari è stata utilizzata in numerosi atenei per costruire posizioni precarie destinate a non avere un futuro. Anche se doveva essere evidente a tutti che le oltre 18 mila borse di dottorato non potevano essere intese come il primo passo di una carriera accademica, così non è stato.
Mentre i rettori degli atenei in presenza riuniti nella Crui e gli stessi sindacati di sinistra tendono a chiedere più soldi, ora si tratta di usare meglio le scarse risorse di cui dispone un Paese che da un trentennio va declinando.
In tal senso, per fare investimenti migliori è doveroso evitare le uscite sconsiderate degli ultimi anni, quando s'è ingrossato un precariato che in larga misura resterà tale. Perché non c'è nulla di peggio che creare aspettative che poi saranno quasi sempre frustrate.
L'università italiana è oggi un apparato enorme, con oltre 50 mila docenti assunti e decine di migliaia di amministrativi e altri collaboratori. Per farla crescere non ci può essere altra via che la maturazione delle realtà locale, così che ognuno impari a prendersi cura dell'ateneo in cui opera, smettendo di credere che i soldi pubblici siano una sorta di manna che viene dal cielo.
Al termine del Candide, Voltaire sottolinea che per avere un futuro migliore «bisogna coltivare il proprio giardino». Se ogni università imparerà la lezione, l'intero sistema dell'alta formazione ne guadagnerà di sicuro.
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