Ilva, processo "inquinato" da tre giudici

La scelta di costituirsi parte civile ha cancellato la dura sentenza di primo grado

Ilva, processo "inquinato" da tre giudici
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Tre magistrati. Due giudici onorari e uno della sezione agraria. Sono loro ad aver mandato in pezzi il mastodontico processo dell'Ilva di Taranto e le condanne, durissime, di primo grado. Ora, per via di quelle tre toghe, è tutto da rifare. In sostanza, la vicenda del complesso siderurgico che ha provocato morti e malattie è destinata a finire nel nulla e ad alimentare la rabbia e la frustrazione delle famiglie che hanno sofferto per lunghi anni. Le vittime di quei veleni si erano avvinghiate al verdetto della corte d'assise di Taranto che nel 2021 aveva inflitto pene severe e un totale di 26 condanne per quel disastro diventato un dramma nazionale.

In particolare Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori della cittadella industriale, erano stati puniti rispettivamente con 22 e 20 anni di carcere. L'ex responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, scomparso nelle scorse settimane, era stato condannato a 21 anni e mezzo. E l'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola si era preso 3 anni e mezzo. Inoltre era stata disposta la confisca per equivalente degli illeciti profitti per oltre 2 miliardi di euro. Ora è tutto in fumo.

La sezione staccata di Taranto della corte d'assise d'appello di Lecce ha fatto tabula rasa di quel verdetto, ha azzerato più di un decennio di processi in cui si contestava, fra l'altro, l'associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, ha spedito le carte a Potenza perché sarà la procura del capoluogo della Basilicata a riformulare, ormai fuori tempo massimo, i capi d'imputazione e la richiesta di rinvio a giudizio.

Siamo in una specie di gioco dell'oca dai danni, economici, umani e giudiziari incalcolabili, ma la verità è che sulla buccia di banana della competenza è venuto giù tutto, un edificio emerso in superficie con il sequestro degli impianti dell'area a caldo nel 2012. Ma con i lavori iniziati ancora prima, nel 2010.

Le regole del diritto però sono queste e 29 pagine demoliscono le 3773 del primo round.

Il punto è che i tre giudici si erano costituti parte civile nel procedimento e dunque, sulla base del citatissimo articolo 11 del codice di procedura penale, le carte avrebbero dovuto prendere da subito la strada di Potenza. Questo perché è vero che i tre non erano i titolari del dibattimento, ma appartenevano agli uffici giudiziari della martoriata città pugliese e il Palazzo di giustizia dovrebbe esprimere terzietà e imparzialità. Non coniugabili con l'ingresso in aula di alcune toghe dell'ufficio come parti danneggiate.

«La questione di incompetenza - scrivono i giudici d'appello - trova la sua causa nella circostanza che due delle parti civili costituitesi nel presente processo avevano svolto le funzioni di giudice di pace e una terza quelle di esperto della sezione agraria del tribunale di Taranto». Possono sembrare questioni marginali ma non è così per la corte d'assise d'appello che prosegue implacabile ricostruendo le tre biografie: «In particolare», uno dei due avvocati in questione «aveva esercitato le funzioni di giudice di pace dal 1994 al 2015 e si era costituito parte civile dinanzi alla corte d'assise di primo grado all'udienza del 17 maggio 2016, chiedendo il risarcimento dei danni causati ad un suo terreno, situato nelle immediate vicinanze dei parchi minerari e dell'area a caldo dello stabilimento Ilva». Ma già nel 2010, in una vicenda interminabile e drammatica, aveva diffidato l'Ilva. Siamo dentro un perfetto cortocircuito, secondo la corte che formula le stesse critiche con gli altri due protagonisti, loro malgrado, di quel naufragio.

Il secondo giudice di pace si era costituito parte civile prima, all'udienza del 16 giugno 2014 e l'aveva revocata pochi mesi dopo, ma comunque era entrato nel procedimento.

Stesso iter per l'esperto, alla sezione agraria di Taranto dal 1981 al 2005 e poi nel processo dall'udienza del 17 maggio 2016.

In un'epoca cronologicamente successiva, ma la distanza temporale secondo la corte non fa cadere le obiezioni sollevate a più riprese da stuoli di avvocati. «Pertanto - è la clamorosa conclusione - la sentenza di primo grado va annullata per tutti gli imputati e gli atti vanno trasmessi, per competenza, al procuratore di Potenza».

Non è esattamente quello che si era scritto e detto subito dopo il verdetto, con le motivazioni ancora in fieri: si era parlato genericamente di mancanza di serenità da parte di alcuni magistrati di Taranto che abitano nei quartieri a ridosso della grande fabbrica.

Insomma, era stata evocata quella che i giuristi chiamano la legittima suspicione, ma non è così. È sull'orologio della competenza che cosa il sipario.

Dunque, tutti di nuovo alla casella di partenza, questa volta a Potenza.

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