Quando, nel mercato dell'energia, qualcosa va storto, le imprese italiane sono le prime a pagarne il prezzo più caro. È quello che rischia di succedere in questi mesi, a causa delle tensioni generate sui prezzi dalla chiusura dei gasdotti ucraini. Nel 2025, secondo le stime del centro studi degli artigiani (Cgia), alle imprese italiane le bollette potrebbero costare 13,7 miliardi in più rispetto al 2024, pari a un aumento del 19,2%. E di questi, 8,8 miliardi per le sole aziende delle 4 grandi regioni del Nord. La spesa complessiva dovrebbe toccare gli 85,2 miliardi, di cui 65,3 per l'energia elettrica e 19,9 per il gas. Ma quel che è peggio sono le conseguenze in termini di competitività: quando aumenta il prezzo sui mercati, le imprese italiane subiscono aumenti più elevati rispetto a quelle concorrenti. In primis tedesche, spagnole e francesi. Per cui chi può ridurre i margini sull'export se la cava sacrificando gli utili; chi invece non ha questo cuscinetto finisce in rosso.
È il vecchio difetto che torna fuori. Quello di un Paese che, rinunciando al nucleare, è diventato dipendente dall'import. E che con la transizione green - in estrema sintesi - ha peggiorato la sua situazione, dovendo spegnere le centrali a carbone senza avere ancora abbastanza energie rinnovabili. Il problema arriva da lontano e si aggrava ogni volta che c'è una crisi.
Confindustria lo denuncia da tempi non sospetti, ricordando che negli ultimi confronti disponibili del 2024, a fronte di un Pun (prezzo unico nazionale) di 88 euro al Mwh, in Europa si va dai 40 euro in Spagna, ai 58 in Francia fino ai 61 in Germania. In tutti i casi - vuoi per la presenza storica dei rigassificatori (Spagna), del nucleare (Francia), o della persistenza del carbone (Germania) - i nostri concorrenti hanno pensato di più e meglio alle loro imprese. Come sostiene Aurelio Regina, delegato all'Energia dal presidente di Confindustria Emanuele Orsini, serve l'impegno dell'Europa «che finora ha pensato a decarbonizzazione e sicurezza ma non alla competitività». Mentre all'Italia serviranno «i reattori nucleari di piccole dimensioni, che offrono una tecnologia sicura. Ne basterebbe uno per fornire energia a un intero distretto industriale, e 20-25 per tutto il Paese».
È la soluzione ha cui sta lavorando il governo: il ministero dell'Ambiente guidato da Gilberto Pichetto Fratin, presenterà entro fine mese la legge delega per il riordino del nucleare, che punta ad essere approvata entro l'anno per poi avere a disposizione dall'industria i primi moduli di quarta generazione (non sono centrali ma «mini-reattori», da collocare nei distretti industriali) per l'inizio del prossimo decennio. E nell'immediato? Come difendere le imprese, energivore in particolare?
Confindustria individua due direzioni. La prima, come indica il presidente di Federacciai Antonio Gozi, è «spingere al massimo sulle rinnovabili», superando gli ostacoli burocratici e lavorando «su una combinazione di diverse misure che insieme abbattano i prezzi».
La seconda è la strada aperta dal governo dell'energy release: «Apprezziamo il provvedimento con cui le imprese energivore ottengono energia rinnovabile a basso costo in cambio della costruzione di impianti da rinnovabili che restituiscano in 20 anni l'energia scontata messa a disposizione nei primi tre».
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