Due amici si incontrano nel centro di Genova. «Hai saputo: a breve riapre il ponte sul Polcevera». «Bene. Così la coda della A10 si potrà unire con quella della A12». Il vecchio cinismo zeneise è un pur sempre un segno di vitalità, ma la Liguria è una regione isolata, raggiungerla, non solo nel weekend, è un dramma. Il presidente Toti è preoccupato per il turismo. Con i viaggi all'estero ridotti, la Liguria è diventata di nuovo la meta prediletta per lombardi e piemontesi. Ma il traffico in tilt e gli ostacoli paiono una sorta di nemesi. Se circolate in Rete, trovate decine di meme esilaranti sull'accoglienza Liguria-style: per anni «i milanesi», com'erano identificati tutti i forestieri, sono stati accolti con sussiego come se fosse un favore farli pagare per una camera, un pranzo, un gelato. La crisi del Covid ha cambiato anche il carattere: mai visti i miei corregionali così accoglienti. Il paradosso è che rischiano di pagare per quello che non sono più. Perché scappa la voglia di partire.
Questo è il diario di un viaggio da Milano a Recco, in due puntate. La prima. Parto venerdì alle 14. Fino al bivio per la A26 (l'autostrada del Ponente), si va. Poi cominciano i lavori, i restringimenti, i salti di carreggiata, i rallentamenti. A Bolzaneto siamo in coda e lo svincolo per la A12 è un muro di auto. Decido di prendere per il mare. Questa è la mia «gronda» (aspettando quella che per i grillini era ed è inutile) personale: Genova Ovest, Sopraelevata, Corso Italia, Nervi e via. Alla Foce, quella dove - secondo il nostro inno nazionale (Ma se ghe pensu) - si «franze u má», scopro che l'ottimo sindaco Bucci ha creato la pista ciclabile più larga d'Europa, restringendo corso Italia da due a una corsia. Scopro che pure la mia idea non ha il copyright. Coda. Sarà solo fino all'uscita da Genova. Speranza vana. Sull'Aurelia è peggio. Dopo Sori scopro l'arcano: c'è un senso unico alternato per lavori. Non sia mai che le autostrade abbiano l'esclusiva dei cantieri. Arrivo stabilendo il primato per i miei viaggi Milano-Recco. Dal 1981 non ci ho mai messo così tanto: quattro ore e venti minuti.
Decido di non tornare più per un weekend, ma solo per quando verrò per stare un mese, come ogni anno. Tre giorni fa una faccenda burocratica mi costringe a ripetere il viaggio. Stavolta vi frego. Ho un impegno alla sera. Partirò dopo. Mi muovo all'una e quaranta. Solo qualche raro Tir. Verso Tortona avvisano che la A26 è chiusa, ma non mi riguarda. Dopo il bivio, i display, con un italiano precario, avvisano che da Genova Est la A12 è chiusa per lavori. Di giorno coda, di notte chiusa. Mi ritrovo di nuovo ad attraversare la città, ma sono le tre e non c'è nessuno. Per spregio vorrei fare tutto corso Italia sulla ciclabile, ma mi comporto bene. Arrivo alle 4. Quasi regolare. A parte l'ora.
Basta. La prossima vado in treno. Trilla il cellulare. Un'amica è ferma da mezz'ora in Centrale. Anche il treno non ha l'esclusiva. Aperta parentesi: bisognerebbe parlare dei collegamenti ferroviari Milano-Genova fermi al Regno di Sardegna. Chiusa parentesi. L'amica mi racconta: «Volevo prendere un Intercity: tutti prenotati. Tento con un regionale. Arrivo con mezzora d'anticipo. Il treno si riempie all'inverosimile. Seduti e in piedi. I controllori cercano di far scendere il popolo, vedo dal finestrino dei poliziotti. Dopo settanta minuti partiamo. C'è gente ancora in piedi. A Rogoredo altro assalto con i controllori in marcatura».
A Genova la mia amica cambia e scopre che in Liguria i treni sono stracolmi, la gente è ammassata ma nessuno dice nulla. È il federalismo, bellezza. «Trenitalia mi ha dato una bottiglietta d'acqua, però». Meglio di niente. «La prossima volta vado in auto» mi dice. Non ne usciremo mai.
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