
Gran visir. Civil servant. L'ombra del potere. Forse si potrebbe abbinare una definizione diversa dalle altre a ciascuna delle novanta candeline che spegnerà oggi. Gianni Letta, nato ad Avezzano il 15 aprile 1935, ha già un posto nei libri di storia ma intanto abita comodamente in cronaca e tiene con il suo profilo affabile e i suoi modi morbidi un ritmo indiavolato che manderebbe fuori giri chiunque altro. Anche ora la sua agenda è fitta come sempre, come era densa quella di Giulio Andreotti, l'unico novantenne con cui si possa tentare un paragone, ma Letta la diluirà con la solita compostezza nell'aperitivo che in suo onore è stato organizzato al Senato da Ignazio La Russa.
Il festeggiato conosce probabilmente più segreti delle persone cui è stato vicino per lungo tempo, cominciando naturalmente da Silvio Berlusconi che lo volle sottosegretario alla presidenza del Consiglio in tutti e quattro i suoi governi. Un record ma anche la dimostrazione di una straordinaria duttilità e capacità di adattamento a quella dimensione che si colloca a un metro dal palco, a un metro dai riflettori, un passo prima delle decisioni che pesano e delle strette di mano che contano. Gianni Letta è un maestro, anzi il maestro della penombra, che a differenza di quello che molti pensano, non è l'anticamera di relazioni oblique ma semmai, il contrario: lo spazio del servizio e della discrezione, della rinuncia alla propria per l'altrui visibilità.
C'è sempre lui nei momenti chiave e nei momenti di passaggio, quelli in cui far prevalere la continuità istituzionale sullo strappo e la rottura.
Eccolo, nel 2006, al fianco della coppia Berlusconi-Prodi, con il primo che passa sorridente la fatale campanella al secondo; e la memoria corre alla drammatica staffetta fra il nipote Enrico, lo sguardo assente e intristito, e un rampante Matteo Renzi nel 2014. Ci fosse stato lui, chissà.
Lo «zio Gianni», così è per tutti, non è mai stato parlamentare, non è mai stato ministro e non ha mai avuto una tessera di partito, ma è sempre impegnato dentro il Palazzo. Il 14 marzo scorso partecipa ad esempio alla Franco Frattini Lecture, un tributo al grande giurista e politico scomparso prematuramente, presso la Sala Koch del Senato. E due giorni prima, il 12 marzo, appare alla presentazione del premio De Santis.
Quando c'è, in pratica sempre, il copione si ripete: interventi a braccio, senza foglietti volanti, testi precotti e suggeritori, ritmati da un invisibile metronomo. Del resto nel suo dna c'è il dono giornalistico della sintesi e nel suo album, paragonabile per estensione a quello andreottiano, spicca la foto del direttore del Tempo Gianni Letta che nel 1984 incontra in Vaticano Giovanni Paolo II. Da lì, pagina dopo pagina, si arriva alle convulsioni del presente: è lui a portare Mario Draghi da Marina Berlusconi. Con la primogenita del Cav, Pier Silvio e con la famiglia ha rapporti strettissimi, anche ora che Silvio non c'è più. I contatti sono regolari. E insomma, non è un reduce o un emerito, ma un interlocutore da prima fila che quando scattano i flash si accomoda subito dietro.
Eventi, Serate. Speech, sempre in piedi. Spostamenti sulla solita, eterna Maserati, ormai d'epoca. E giornate interminabili che cominciano al mattino presto quando raggiunge il suo ufficio, in largo del Nazareno, non certo per passare il tempo. No, semmai le ore è costretto a comprimerle in una gimkana di telefonate, email, relazioni da coltivare, libri da leggere per poterne parlare e consigli da dispensare agli amici, come Antonio Tajani che ha raccolto la difficile eredità del Cavaliere.
Felpato, ma mai arrendevole sa usare, quando necessario, la parola come una frusta. Così scrisse al Messaggero in morte del Cavaliere: «Ho scelto il silenzio anche per la sensazione che tanti lo celebravano per celebrarsi». Ma la filosofia di vita, se così si può dire, non è quella del violino solista che vuole primeggiare, ma semmai quella del virtuoso che mette il suo talento al servizio del bene comune, bipartisan per definizione. Uno stile che si riassume in una frase, pescata nel suo immenso archivio dall'Adnkronos: «Spesso ci incontravamo con Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli, forse ho imparato allora il valore del dialogo sereno, pacato, serio, costruttivo, anche da posizioni distanti e differenti».
Anche se Cossiga era uno dei leader della Dc e Pecchioli era considerato il ministro degli Interni del Pci. Miracoli di una convivenza che allora era necessaria e oggi non si vede più, ma esiste ancora, magari lontano dalle telecamere. Certo, quello spirito tornerà stasera per il brindisi a Palazzo Madama.
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