Un "ingorgo" sull'Everest. Morti dieci alpinisti stremati dalle ore in coda

La cima presa d'assalto dagli scalatori. Fatali le lunghe attese in condizioni di ossigeno rarefatto

Un "ingorgo" sull'Everest. Morti dieci alpinisti stremati dalle ore in coda

Avere un sogno nella vita, allenarsi e risparmiare un bel gruzzolo per realizzarlo. Mollare tutto per quasi due mesi in cui raggiungere finalmente gli spazi immensi e i luoghi più reconditi del pianeta per provare a salire il tetto del Mondo. Farcela. Sorriso, foto di vetta con bandiera, piccozza e braccia all'insù. Diventare «summiter». E poi? Morire in coda, come nemmeno in tangenziale. Non per un incidente o una tempesta, ma perché la discesa è così lenta e trafficata che l'ossigeno delle bombole termina e all'improvviso ti manca l'aria, anche se hai tutto il cielo sopra di te. È soprattutto amaro il bilancio di questo primo scorcio di stagione sull'Everest. Con un britannico e un irlandese, morti nelle ultime 36 ore, salgono a 10 le vittime dal 14 maggio, quando fra Tibet e Nepal si è ufficialmente aperta la stagione di vetta.

Due giorni fa la situazione peggiore: in una foto subito finita sui social si allungava una coda di 320 omini, fra sherpa colorati e clienti sfiniti. A scattarla è stato Nirmal Purja, pure intruppato mentre stava portando a termine il suo nuovo record: scalare i 14 Ottomila in 7 mesi. Con L'Everest - che poi ha raggiunto - è salito a quota 6 in poche settimane, ma, tornato a valle, ha preso un elicottero per spostarsi alla prossima meta. Settimana scorsa, invece, in un giorno solo, i summiter sono stati 120. Fra loro anche l'americano Donald Cash che, lasciando l'ultimo campo aveva scritto: «Mi sento così fortunato ad aver raggiunto un sogno inseguito 40 anni». Pochi minuti e sarebbe stato la vittima numero sette del 2019. Sagarmatha, se lo guardi da Kathmandu; Qomolongma se sbirci da Tingri e da Nord. Da entrambi i versanti, l'Everest, coi suoi 8.848 metri, fa più paura per le code che non per l'effettiva difficoltà di scalarlo. Tentare è un diritto: ci sono code anche sui Quattromila delle Alpi e anche più in basso, certe domeniche sulle prealpi sono da bollino rosso come in A1. Un conto sono i due o i quattro mila metri, un conto sono gli Ottomila, ben oltre la death zone in cui l'uomo deve sapere di essere, una volta di più, ospite di rapido passaggio.

Entrambe le vie normali all'Everest conducono a creste troppo sottili per creare così ripetono gli esperti - una via di salita ed una di discesa. Dal più ambito versante nepalese, per esempio, gli ultimi metri di dislivello alla vetta passano, per esempio, da quel roccioso Hillary step che lui superò tutt'altro che in scioltezza nel 1953, tutt'oggi un vero collo di bottiglia. Poi c'è la cima, dove anche quei pochi minuti di permanenza significano tempo e attesa per tutti gli altri. Spesso si sfora il cosiddetto orario del non ritorno: i clienti non ascoltano gli sherpa. Li hanno pagati e cosa vuoi che sia mezz'ora in più, quando sei a pochi passi dal sogno. Il risultato è che se l'ossigeno finisce, tu, pur allenato, ti ritrovi catapultato nell'aria tre volte più sottile che invece prima respiravi in abbondanza con l'erogatore.

È, infatti, il mal di montagna in discesa la principale causa di morte sull'Everest. E quest'anno la conferma è evidente. Le spedizioni commerciali hanno numeri chiari: paghi 20-30mila dollari o più, a seconda dei comfort che ti concedi, ma la metà circa 11 mila dollari sono destinati al solo permesso di scalata. Quest'anno fra Cina e Nepal ne sono stati rilasciati 800, la metà circa per l'Everest. Un bell'income per i due paesi anche se, dopo le ultime tragedie, il capo dell'ufficio del turismo nepalese Danduraj Ghimire ha definito senza senso le voci secondo le quali il sovraffollamento della cima darebbe il vero problema. Fra gli intruppati più famosi sono finiti anche Elizabeth Revol, la francese salvata in extremis due inverni fa sul Nanga Parbat. Lei è riuscita a «mettere la freccia» e a superare le code, concatenando Everest e Lhotse in pochi giorni.

Ha, invece, per ora rinunciato, alla vetta David Gottlieb, altro alpinista di razza rimasto imbottigliato pochi giorni fa. Un paradosso che chi scala per professione rinunci e chi lo fa per sport, invece, non sappia forse che cosa si rischia per un passo in più.

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