Eugenio Di Rienzo ha insegnato Storia delle dottrine politiche e Storia moderna. Dal 2006 professore ordinario di Storia moderna presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università La Sapienza di Roma. È anche direttore di Nuova rivista storica e membro del comitato scientifico di Geopolitica. Gli abbiamo chiesto di riflettere con noi sulla storia del terrorismo e della violenza politica in Italia, a partire da come viene raccontata.
Professor Di Rienzo come si sono posti gli intellettuali italiani rispetto al terrorismo degli anni Settanta?
«Parliamo soprattutto degli intellettuali di sinistra perché di intellettuali di destra non ve n'erano più molti... Presero da subito una posizione diversa da quella istituzionale del Pci e della Cgil che in teoria erano i loro punti di riferimento politico. Il partito comunista cercava di bloccare le loro infiltrazioni. A partire da alcune posizioni come quella di Sciascia, che per altro fu frainteso, prese piede quello slogan né con lo Stato né con le Br che veniva fatto passare per equidistanza ma equidistanza non era. Ci fu persino chi negò l'esistenza del terrorismo di sinistra, sostenendo che ci fosse solo un terrorismo di destra. Quello di destra c'era ma c'era anche quello di sinistra ma i due fenomeni erano paralleli. Io mi sono laureato nel '77 le ho viste le P-38... Ci fu un'indulgenza, un chiudere gli occhi. Quella violenza non è discutibile».
Un'altra espressione a sinistra fu «compagni che sbagliano» e la cosa non rimase confinata agli intellettuali...
«Anche una fascia di opinione pubblica sposò queste tesi. C'erano moltissimi fiancheggiatori, molti più di quanti si possa pensare. In questo caso pesò una eredità sbagliata della Resistenza. La Resistenza da un pezzo di sinistra era stata vista come una occasione mancata. Per molti non si trattava di battere il nazifascismo ma di instaurare il comunismo in Italia. Questo retaggio era rimasto».
La giornalista Rossana Rossanda in un articolo sul Manifesto in pieno sequestro Moro scrisse: «chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l'album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria...». Scoppiò un putiferio.
«Una parte più estremista del Pci negli anni '50 usava questo linguaggio. Ma la dirigenza Togliattiana aveva scelto un'altra strada. La fase rivoluzionaria Togliatti l'aveva archiviata, certo il linguaggio di piazza era un'altra cosa. Dirigenza del Pci era più avanti su questo dei suoi intellettuali di riferimento».
Ma questo cortocircuito dentro la base non era così chiaro...
«Diciamo che negli anni '50 la base operaia fu sul punto di esplodere. Ma poi gli operai vennero disciplinati. Gli intellettuali meno. E questo modo di pensare è rimasto presente tra gli intellettuali molto a lungo, non credo nemmeno sia mai scomparso del tutto».
Lo
scavallamento a sinistra del Pci da parte di questi componenti spiega scelte come il compromesso storico?«Sì divenne una lotta interna alla sinistra. I terroristi erano diventati quelli che potevano erodere la base del Pci».
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