Stefano Ceccanti per prima cosa è un pisano, poi è un costituzionalista e, infine, un deputato del Pd (già senatore). È uno che le leggi le conosce bene e anche le tematiche legate alla giustizia. Ha tenuto una conferenza stampa alla Camera insieme ai colleghi Matteo Orfini ed Enrico Morando per esprimere le loro ragioni per «un sì» ai referendum sulla giustizia «a difesa della Costituzione e del lavoro fatto in Parlamento», in contrasto con la linea del partito definita da Enrico Letta.
Professor Ceccanti, perché ha deciso di sfidare Letta sui referendum?
«Innanzitutto non vogliamo sfidare nessuno: i toni usati dal segretario erano legati a cose di breve periodo noi esprimiamo un giudizio su cosa abbiamo fatto in Parlamento e adottiamo un approccio di lungo periodo perché nel Pd esistono aree politico-culturali che in materia di giustizia hanno una impostazione di tipo liberale».
In pratica lei sostiene che un no smentirebbe il Parlamento.
«Se il Parlamento decide di ridurre da quattro a una le possibilità di passaggio tra funzioni per i magistrati significa che il Parlamento la giudica negativamente. Perché adesso dovrei dire di no? Il sì rispetto alla norma Cartabia dice non una sola possibilità ma zero. Il no rappresenta una smentita dell'iniziativa parlamentare. Se uno va a votare e vota no decide di mantenere quattro passaggi mentre il Parlamento li ha ridotti ad uno, il sì è coerente con il lavoro parlamentare, il no rappresenta una smentita».
Lo fa per coerenza quindi.
«C'è una coerenza con quello fatto sulla riforma Cartabia e quello che fece anche il Parlamento nel 1999 cambiando l'articolo 11 della Costituzione. Votare no, sarebbe incoerente con quello che il Parlamento dice: che il giudice deve essere terzo e che tutte le volte che si può distinguere si fa bene. Il sistema elettorale del Csm lo abbiamo votato in Parlamento, sarebbe strano se votassimo sì come elettori a una cosa identica non trova? Infine il quesito sulla valutazione dei magistrati demandata anche a degli avvocati, qui il quesito è diverso ma il senso è lo stesso».
Il fatto è che il Pd ha troppe correnti.
«Io sono per i grandi partiti perché devono fungere da scuola di apprendimento reciproco. E se si vogliono avere grandi partiti a vocazione maggioritaria è giusto ci siano aree diverse. Molto meglio gestire certe discussioni dentro un unico partito perché poi ci sono regole per trovare soluzioni, piuttosto che risolvere i problemi tra partiti diversi».
Voi come siete?
«Nel nostro gruppo Libertà Eguale ci sono persone di varia provenienza, da ex comunisti a cattolici democratici e liberali. Libertà Eguale promosse il referendum sul fatto importante di distinguere e separare chi accusa e chi giudica. Ci vuole equilibrio dentro l'ordine giudiziario, non è una cosa episodica, momentanea».
E Letta?
«Letta conosce il Pd e sa che su questi temi c'è una sensibilità molto precisa. Alle ultime primarie con Zingaretti e Martina la mozione Martina prevedeva la separazione delle carriere quindi Letta tiene conto sempre delle varie posizioni del partito, è stato sempre dialogico sui tre quesiti. Ha semmai espresso perplessità sugli altri due».
Lei non è molto disciplinato però.
«Nei referendum prevale una logica svincolata dalla disciplina di partito. Io sono disciplinatissimo come parlamentare ma il referendum è un'altra cosa».
Infatti vi ha lasciato libertà di coscienza. Ma il quorum si può davvero raggiungere?
«Chiunque ha capito che certi risultati sono rilevanti indipendentemente dal quorum e condizionano sempre certe decisioni politiche. Non è una gara all'ultimo voto, anche un risultato perdente può delineare un percorso».
La Cartabia che ha fatto?
«La ministra Cartabia ha fatto delle cose, ha lavorato bene. Del resto certi quesiti erano inammissibili per un referendum abrogativo».
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