«Baby Vallanzasca è morto per sempre». Nella Milano un po' glamour e un po' maranza c'è chi si è messo alle spalle l'evasione dall'istituto penitenziario minorile Cesare Beccaria di Milano. Lo chiameremo Ricky, come ci chiede in un whatsapp sgrammaticato con cui accetta di parlarci. Il manifesto del riscatto porta la firma di Riccardo Di Cataldo, classe 1998, detto la Pulce per come saltava da un muretto all'altro. L'infamia di essere il nuovo Vallanzasca se l'è vista appioppare nel 2010 dai signori del dolore che da anni avvelenano i pozzi della cronaca e le vite di chi finisce tritato da un tubo catodico. Ricky quell'etichetta che poteva segnarlo l'ha strappata via. Ci mostra una foto scattata in cella («lì dentro entra di tutto, ti giuro») virale sui social grazie a Instagram, la sua rinascita è sincera.
Lo aveva promesso in una serie di lettere scritte dopo aver messo il Beccaria a ferro e fuoco, ce lo ribadisce col sorriso, parlandoci della sua ragazza di cui è innamoratissimo, mostrandoci il badge e il cartellino del suo nuovo lavoro, lontano (ma non troppo) dai riflettori dei media che lo volevano icona perfetta del male, quando a quattordici anni aveva inanellato più reati di Lupin. Primo arresto a 10 anni, lo spaccio con l'ombra della 'ndrangheta («tutte baggianate»), papà e fratello con precedenti, si addestra a fare la vedetta per le gang di Quarto Oggiaro, quartiere che l'ha osannato e protetto quando sparì per quattro mesi mentre la sorellina faceva la spola tra affidi e servizi sociali.
Si diceva avesse memorizzato le targhe degli sbirri che impazzavano nella Scampia di Milano, da cui oggi è scappato, non senza traumi: «Ho chiuso con tutti, mio padre a 70 anni è ai domiciliari, ci sentiamo al telefono ma quando lo sento litigare con mia madre metto giù...». Di ragazzi interrotti ne ha incrociati tanti, come i trapper Shiva o Baby Gang. Gli basterebbe farsi ritrarre con loro per raccogliere follower e un po' di grana, ma ha imparato a fare a meno degli amici e dei suoi quando è stato spedito a Catania. «Poi a Bari, in Sardegna, ho girato mezza Italia. Potenza, Catania, Napoli, Torino, Roma... sballottato come un pacco postale». Trentatré carceri, più di metà vita dietro le sbarre, neanche un beneficio. «Avevano problemi economici, non mi vergogno a dirlo, i miei non potevano venirmi a trovare. Ero ragazzo, più o meno lo capivo ma mi sentivo abbandonato, anche dallo Stato. Non facevo colloqui per sei mesi, un anno. Un ragazzino di 14 anni come lo fai crescere via dai genitori? Andavo in escandescenza perché volevo parlarne con qualcuno, mi fumavo una canna pur di non prendere le medicine che ci davano. Ma gli assistenti sociali arrivavano molti giorni, persino settimane. E io li cacciavo: Dovevate venire prima, non serve più...».
Il suo tour penitenziario iniziato il 10 settembre 2012 è finito lo scorso 4 febbraio, dopo quasi quindici anni. Sull'inchiesta che infanga gli agenti del Beccaria dice: «La guardia adulta che ha un po' di esperienza accetta meno la provocazione, se invece è troppo giovane è un attimo che si accende. A volte gli agenti fanno i fighi, i gradassi ai nostri occhi. Quante ne ho combinate, io... Fattelo dire da quelli di Opera (ride), dal comandante Amerigo Fusco...». La sua ricetta? «I ragazzi non devi farli incattivire, devi coccolarli, dargli una giusta via, non obbligarli a fare ciò che non vogliono. La psicologia del tuo cervello a volte ti rende triste, infelice. Ti dicono solo bugie». C'è chi resta per strada, lui è cambiato anche grazie a un libro, Il maestro dentro di Mario Tagliani. «Il disegno con le matite, la copertina in ceramica gliel'ho fatta io. L'ho conosciuto a Torino, uno dei penitenziari minorili dove sono stato meglio. Là ti aiutano di più, in confronto il Beccaria è Auschwitz. Lì mi sono sentito abbandonato: gli educatori fanno quello che vogliono, mancano psicologi e assistenti sociali, i direttori sono assenti, i comandanti non sono comandanti».
Ma la fama di criminale non te la stacchi mai di dosso. «Una volta mi hanno fermato, senza motivo. Mi hanno sequestrato un telefonino nuovo e 700 euro. Non avevo fatto nulla, ti giuro». Chi ha vissuto l'inferno dietro le sbarre ha le idee chiare: «La giustizia è da rifare, da zero. Non è vero che la legge è uguale per tutti. Tu sei quello che si occupa della strage di Erba, vero?».
Ci parla di Olindo Romano, condannato con la moglie Rosa Bazzi dopo un processo su cui deciderà la Corte d'Appello di Brescia il 10 luglio, anche grazie alle inchieste del Giornale. «L'ho conosciuto, è innocente, lo dicono pure le guardie». Ma questa è un'altra storia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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