Bangkok. «Ora si rischia di essere ammazzati anche stando a casa», racconta al Giornale John, ventunenne di Yangon, che sin dall'inizio delle proteste è sceso in strada per battersi contro il golpe militare del 1° febbraio in Myanmar. Un ragazzo come i tanti che stanno animando le piazze del Paese da ormai due mesi. Tutti stanchi di dover sottostare al volere dei generali che da decenni controllano e insanguinano la ex Birmania.
Quando lo contattiamo attraverso un'applicazione criptata, la linea va e viene. L'esercito ha bloccato la rete mobile e solo per alcune ore al giorno è possibile utilizzare il wi-fi. «Chiamami John, non usare il mio vero nome, altrimenti potrebbero venire ad uccidermi», chiede prima di iniziare a parlare. Studente alla Myanmar Maritime University, uno degli atenei più prestigiosi del Paese, ha iniziato a partecipare alle manifestazioni nella seconda settimana di febbraio, proprio mentre è cominciata la repressione delle forze di sicurezza.
«Pochi giorni fa c'è stata una protesta vicino a dove abito. Non ero ancora uscito quando uomini in borghese hanno iniziato a sparare. La gente è scappata, cercando di trovare riparo dove capitava», ricorda l'attivista. «Mi sono affacciato, i colpi arrivavano da tutte le parti e davanti a casa mia tre persone senza vita stavano in una pozza di sangue».
Fino ad ora la polizia e i militari hanno ucciso almeno 600 persone. Ma questi sono solo i numeri dei morti caccertati. «Tanti altri sono scomparsi dopo essere stati arrestati, molto probabilmente sono stati giustiziati in carcere», spiega John. Non sarebbe certo una novità in Myanmar. La maggior parte dei fermati si trova nella prigione di Insein nel distretto di Yangon, una struttura usata in passato dalla giunta per i dissidenti politici, diventata tristemente famosa per l'uso sistematico della tortura e per le sparizioni dei detenuti.
«Htet Myat Aung, un mio caro amico e compagno di università del primo anno, è stato brutalmente freddato il 13 marzo mentre partecipava ad una protesta a Pyay», racconta lo studente. «I soldati e i poliziotti hanno aperto il fuoco contro i dimostranti e lo hanno centrato due volte». Ma il ragazzo, gravemente ferito, non era ancora morto. Così alcuni volontari lo hanno portato in un luogo considerato sicuro. La velocità dei soccorritori, però, non è bastata a salvargli la vita. «Una spia ha inviato la loro posizione agli uomini della giunta, che sono arrivati poco dopo e gli hanno sparato ancora, uccidendolo».
«I miei genitori non vogliono che io partecipi alle manifestazioni, ma appena posso lo faccio», continua John. «Mi coordino con gli altri studenti del mio ateneo e di giorno in giorno vediamo come organizzarci. Quando non scendiamo in strada, ci diamo da fare per far vedere al mondo cosa sta succedendo nel nostro Paese e per segnalare l'arrivo dell'esercito e della polizia nei diversi quartieri della città».
Il giovane militante, come tutti quelli che stanno subendo le barbarie delle forze di sicurezza, ha paura, ma vuole continuare a combattere per la libertà del suo Paese. «La giunta sta uccidendo bambini, donne in gravidanza e sta bombardando i civili nelle zone etniche. Quando si è testimoni diretti di queste violenze non si può certo rimanere a guardare. Per questo scenderò in strada finché ne avrò la possibilità».
Nelle speranze di un domani migliore, però, c'è anche la delusione di chi da troppo tempo sta combattendo pacificamente e in solitudine contro un esercito armato fino ai denti.
«Le parole della comunità internazionale sono ben accette, ma se rimangono tali non serviranno a nulla. La giunta militare se ne frega dei discorsi che fanno alle Nazioni Unite», dice John arrabbiato e deluso. «Noi vogliamo riprenderci in mano il nostro futuro. E per farlo, questi assassini devono essere incriminati».
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