L'ombra dei rapporti tra 'ndrangheta e Pd si allunga su Montecitorio, mentre il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon risponde per conto del ministero della Giustizia, a un'interpellanza urgente del deputato reggiano di Fratelli d'Italia Gianluca Vinci. «È stata avviata da questo dicastero un'attività conoscitiva di natura ispettiva che al momento risulta ancora coperta da segreto» sul caso AEmilia-Pd, scandalo scoppiato dopo la relazione del sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi sui dossier che inguaiavano il Pd tenuti nel cassetto dalle Procure. Secondo l'ex procuratore oggi in pensione «vi è stata una volontà anche politica di non perseguire esponenti a sinistra».
Seduto in alto tra i banchi del pubblico alla Camera c'era anche Giovanni Paolo Bernini. L'ex presidente del Consiglio comunale di Parma, già consigliere al ministero delle Infrastrutture ai tempi del governo Berlusconi del 2002, annuisce. Lascia gli scranni rossi e torna in treno a Reggio Emilia. Cosa c'entra lui in questa storia? Nel 2015 Bernini finisce nel mirino del pm Marco Mescolini, che da capo del pool della Direzione distrettuale Antimafia di Bologna ne chiede l'arresto (negato dal giudice delle indagini preliminari per evidente insufficienza di prove). È il 29 gennaio 2015, i reati sono pesantissimi: concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio politico mafioso. Il politico di Forza Italia avrebbe contribuito «pur senza farne parte al rafforzamento e alla realizzazione degli scopi dell'associazione mafiosa», perché secondo il magistrato «richiedeva e otteneva dagli associati voti a suo favore in relazione alla campagna elettorale 2007 per l'elezione del sindaco e del Consiglio comunale di Parma». Ci vogliono anni per uscirne immacolati, le ipotesi di Mescolini si schiantano in giudizio ma lui insiste. Intanto a Reggio Emilia qualcuno chiede uno stralcio per i rapporti tra clan e politici di centrosinistra, c'è un dossier dei servizi segreti e dell'Arma che suggerisce ai magistrati antimafia di indagare sugli strani rapporti tra la dirigente dell'Urbanistica Maria Sergio, scelta dal sindaco Graziano Delrio sebbene fosse legata da vincoli di parentela al boss Nicolino Grande Aracri, e un prestanome del boss. Un problema, perché è anche la moglie dell'allora capogruppo Pd Luca Vecchi, poi vicesindaco reggiano e oggi primo cittadino, come rivelano anche le interrogazioni parlamentari dei grillini. La fine è nota. Non succede niente.
L'anno scorso Mescolini viene cacciato da Reggio Emilia dal Csm dopo la denuncia di quattro pm per i dossier imbarazzanti sul Pd tenuti nascosti, Pennisi fa riemergere la sua verità, che diventa il filo conduttore del libro Colpo al Sistema sul suo calvario giudiziario, in uscita nei prossimi giorni. Dentro ci sono le relazioni degli 007 e le verità di Pennisi. La mafia per definizione «deve avere legami nella politica, nell'economia, nella finanza, altrimenti è una normale banda di criminali e gangster», come disse allora il magistrato ai colleghi. Nell'indagine AEmilia manca un pezzo decisivo, ma a chi importa. «Oggi sappiamo che la magistratura ha gli anticorpi per ribellarsi contro la lobby della malagiustizia politicizzata che ha drogato la storia politico istituzionale negli ultimi 20 anni infangando gli avversari politici - dice Bernini mentre torna a casa in treno - lasciando impuniti gli esponenti politici emiliani collusi con il clan mafioso calabrese da decenni». Gli unici due politici finiti nei guai nella regione rossa per eccellenza erano entrambi di Forza Italia.
L'altro è Giuseppe Pagliani, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, scagionato dopo sette anni da tutte le accuse. Eccola l'ironia della sorte: la 'ndrangheta faceva il bello e il cattivo tempo in Emilia-Romagna, esattamente come il Pd. Ma non ditelo ai magistrati.
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