Iran, proiettili sulla folla. Manifestante di 22 anni rischia l'impiccagione

Spari alla commemorazione di Hadis. E dal regime arriva la prima condanna a morte

Iran, proiettili sulla folla. Manifestante di 22 anni rischia l'impiccagione

C'è chi brucia il velo in strada, chi commemora una o più vittime, chi ruba il turbante ai mullah, un gesto sfrontato e beffardo contro i religiosi che sostengono la Repubblica islamica e i suoi simboli. Dopo 48 giorni di proteste ininterrotte in Iran, i manifestanti vanno avanti ma il bilancio dei morti non fa che appesantirsi. Ieri è stato un altro giorno di sangue. Vite spezzate al grido «Libertà». È già successo 40 giorni dopo la morte di Mahsa Amini e Nika Shakarami, le giovani finite in mano alle spietate forze di sicurezza in Iran. Si è ripetuto ieri, quando gli agenti hanno sparato sulla folla che stava raggiungendo il cimitero di Karaj, 45 km a ovest di Teheran, per ricordare Hadis Najafi, 22 anni, tiktoker uccisa a colpi di arma da fuoco durante le proteste nella capitale. Un'ora prima di morire, Hadis aveva postato un video in cui diceva: «Spero che tra qualche anno, quando guarderò indietro, sarò felice che tutto sia cambiato in meglio».

Intanto, invece, il peggio si ripete. La folla scende in piazza per commemorare una delle vittime delle proteste, durante il rituale funebre dell'islam, a 40 giorni dalla morte, il momento in cui l'anima, dopo la purificazione, inizia il percorso di ascensione a Dio, secondo i musulmani. E decine di manifestazioni proseguono in tutto il Paese, mentre il regime esibisce il pugno di ferro. Un manifestante è stato ucciso con un machete, le immagini di giovanissimi colpiti a morte si susseguono e ieri anche un paramilitare basij, braccio del regime, sarebbe stato ucciso, oltre che Akhund Sajjad Shahraki, imam della moschea di Zahedan, uno dei teatri della cruenta repressione.

Sono almeno 277 le vittime accertate (ma è probabile che siano il doppio), oltre 14mila gli arresti finora, secondo le Nazioni Unite, e oltre mille gli incriminati nella provincia di Teheran e dintorni. La prova che gli ayatollah intendono fare sul serio è condensata nella prima condanna a morte per le proteste, pronunciata dalla Repubblica islamica ai danni del 22enne Mohammad Ghobadlou. Sceso in piazza per i diritti umani e la libertà, il giovane aspetta ora nel braccio della morte. Se la condanna venisse eseguita, Mohammad sarebbe molto probabilmente impiccato, la pratica più comune in Iran. Un segnale chiaro a tutti quelli che si ostinano a voler manifestare, anche per condizioni di vita migliori, mentre il Parlamento iraniano, di fronte a un Paese stremato dalla crisi e dalle sanzioni, ha votato invece per l'aumento del 20% dei salari delle forze armate. Sono decine i manifestanti che rischiano la pena capitale con due accuse insidiose e simboliche della teocrazia: moharebeh, inimicizia contro dio, una sorta di offesa all'islam, e poi efsad-fil-arz, letteralmente «diffusione di corruzione sulla terra», che prevedono la condanna a morte nonostante la vaghezza, usate dal regime come arma ad ampio spettro contro i rivoltosi.

Nelle scorse ore, alla protesta trasversale che coinvolge ogni fascia della popolazione, si sono uniti anche una quarantina di avvocati, «preoccupati per libertà e giustizia». In una lettera hanno spiegato che la maggioranza degli iraniani non vuole più la Repubblica islamica e hanno invitato i colleghi a difendere chi protesta.

Compresi i ragazzi che hanno deciso di indispettire e ridicolizzare il regime, scippando dalle teste dei mullah il turbante, per poi scappare via. La pratica - ribattezzata «amameh parani» (far volare il turbante) - si sta diffondendo come nuova arma di protesta fra i giovani iraniani.

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