Segnali contrastanti da parte del regime iraniano, di minaccia ma anche di possibili aperture, di fronte alla rivolta contro il velo che lo ha messo in difficoltà. Le proteste continuano, nonostante la repressione durissima, nel nome di Mahsa Amini, una curda iraniana di 22 anni deceduta il 16 settembre scorso dopo essere stata arrestata dalla polizia per aver violato il codice di abbigliamento della Repubblica islamica. Da quella data migliaia di donne sono scese in strada per protestare, gridando slogan antigovernativi, togliendosi e bruciando il velo. Ora il Consiglio di sicurezza iraniano in vista di una nuova mobilitazione indetta dagli attivisti per tre giorni dal 5 al 7 dicembre ha ammonito: «Le forze di sicurezza, con tutta la loro forza e senza tolleranza, faranno fronte a ogni nuova rivolta, che finora è stata sostenuta dai servizi di intelligence stranieri». Poi ha continuato: «Gli studenti, i partiti politici, i gruppi, gli attivisti che operano via social network dovrebbero essere vigili su quanto trama il nemico e respingere le rivolte collaborando invece con il governo, per instaurare un dialogo politico volto a riformare alcune questioni e superare i problemi nel Paese».
Ma ci sono anche segnali di possibili aperture. Il Procuratore generale iraniano, l'ultraconservatore Mohammad Jafar Montazeri, ha annunciato che «a seguito dei recenti incidenti nel Paese, il Parlamento e il Consiglio Supremo della Rivoluzione Culturale stanno studiando e lavorando sulla questione dell'hijab obbligatorio e annunceranno il risultato tra 15 giorni». Il procuratore non ha però specificato in quale direzione questa legge potrebbe essere modificata. Ma un rapporto confidenziale trapelato afferma che solo il 37 per cento degli iraniani è d'accordo con la legge sull'hijab, cioè il velo islamico obbligatorio per le donne. In tutto questo subbuglio però la repressione non si placa.
Un nuovo episodio di rappresaglia è stato compiuto contro Elnaz Rekabi, l'atleta iraniana che, alle competizioni internazionali di arrampicata di Seul dello scorso ottobre, aveva gareggiato senza hijab con i capelli raccolti in una coda. L'abitazione della famiglia della scalatrice è stata demolita da funzionari governativi. Alcune immagini mostrano la casa distrutta, le medaglie gettate per terra e il fratello dell'atleta, Davood, in lacrime.
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