Islamisti, gas e Erdogan. Ecco perché l'Italia non chiederà giustizia

Le promesse di verità del governo sono illusorie Il timore che rompere con Al Sisi sia deleterio

Islamisti, gas e Erdogan. Ecco perché l'Italia non chiederà giustizia

Il premier Giuseppe Conte prima d'insediarsi a Palazzo Chigi era uno stimato docente di diritto e quindi lo sa bene. Una giustizia incapace di far scontare la condanna inflitta ai colpevoli è una giustizia irrilevante e inconcludente. Proprio per questo la ricorrente promessa del premier, e quella di tanti esponenti del Pd e dei Cinque Stelle, di offrir giustizia alla famiglia Regeni sarà anche formalmente obbligata, ma resta assolutamente velleitaria. E le eccezionali conclusioni investigative raggiunte dalla Procura di Roma non cambieranno questa realtà. Se anche il processo ricostruisse ogni attimo della barbara uccisione di Giulio Regeni farsi consegnare i suoi assassini resterebbe impossibile. Il motivo è evidente. La Sicurezza Nazionale egiziana e i suoi ufficiali sono parte di un apparato di sicurezza impegnato in uno scontro all'ultimo sangue con i militanti islamisti della Fratellanza Musulmana e con le cellule dell'Isis attive nel Sinai.

Quell'apparato garantisce la sopravvivenza non solo politica, ma anche fisica del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Consegnandoci gli aguzzini di Regeni Al Sisi li trasformerebbe in rei confessi pronti a scaricare su di lui le proprie responsabilità. Per non parlare della reazione di un' apparato che una volta tradito potrebbe rivoltarsi contro lo stesso presidente. Per questo confidare nelle vane promesse del nostro governo cozza non solo con la logica, ma anche con la ragion di stato. Il primo a insegnarcelo è un Emmanuel Macron prontissimo, nei giorni scorsi, a ricevere Al Sisi ignorando le campagne di protesta capitanate, sul fronte parigino, da Celine Lebrun, moglie francese di uno dei 60mila oppositori detenuti nelle galere egiziane. La considerazione di Macron è cinica, ma efficace. Al Sisi è un despota illiberale, ma boicottarlo è oltre che inutile, anche controproducente. Mentre lui non potrà mai rinunciare al pugno di ferro indispensabile a restare in sella Parigi dovrebbe rinunciare a 2mila e 600 milioni di euro di esportazioni annue. E quei milioni rischierebbero di finire nelle tasche di un'Italia forte di un export pressoché equivalente (2400 milioni di euro nel 2019).

Ma poiché parliamo di un commercio a vasi comunicanti è evidente che gli eventuali diktat all'Egitto invocati dal nostro governo finirebbero a questo punto con l'avvantaggiare le aziende d'Oltralpe. E a rischio sarebbero anche i solidi rapporti di un Eni che dopo aver garantito l'indipendenza energetica dell'Egitto con la scoperta del giacimento di gas di Zohr continua a metter a segno contratti come quello per il riavvio degli impianti di liquefazione di Damietta firmato lo scorso primo dicembre . Ma le conseguenze di un rottura con l'Egitto sarebbero ancora più gravi su quel quadrante geopolitico che ci vede in estrema difficoltà non solo in Libia, ma in tutto il Mediterraneo. Su quel versante l'Egitto rappresenta un paese chiave. La necessità di combattere la Fratellanza Musulmana appoggiata e sostenuta dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan fa dell'Egitto un naturale alleato dell'Italia.

E questo è particolarmente evidente non solo in Libia, dove Ankara si è sostituita a noi come potenza di riferimento, ma anche in quel Mediterraneo orientale dove le fregate turche impediscono le prospezioni e le ricerche nelle aree assegnate all'Eni da regolari intese internazionali. Insomma la verità sul caso Regeni fa male e rattrista, ma inseguire una giustizia irraggiungibile rischia di rivelarsi un esercizio non solo vano, ma persino più doloroso.

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