
A Roma si negozia. A Tel Aviv si studiano i piani d'attacco. Nello Studio Ovale, invece, regna l'incertezza. E questa è forse la principale e più pericolosa incognita. Un'incognita capace di trasformare in guerra aperta quello scontro sul nucleare iraniano che da almeno due decenni contrappone Israele e la Repubblica Islamica. Certo un primo «no» Donald Trump l'ha pronunciato. E anche in maniera molto esplicita. Quel «no» è arrivato, infatti, al termine della conferenza stampa che ha chiuso l'incontro dello scorso 6 aprile alla Casa Bianca con Bibi Netanyahu. In quell'occasione Bibi aveva spiegato a Trump i piani d'attacco alle infrastrutture nucleari iraniane messe a punto dai suoi generali. I piani prevedevano una serie di intensi bombardamenti accompagnati da incursioni delle forze speciali di Tsahal all'interno dei principali centri di arricchimento dell'uranio.
Per la certezza del successo mancavano, però, due ingredienti fondamentali. Due ingredienti che solo la Casa Bianca può garantire. Senza le bombe perforanti da 30mila libbre prodotte dagli Usa e senza i B2 americani, ovvero i bombardieri «invisibili» capaci di trasportarle all'interno della fusoliera, non vi è alcuna certezza di distruggere le infrastrutture nucleari iraniane celate sotto centinaia di metri di roccia e cemento armato. Ma il «no» di Trump - assai esplicito nello spiegare di preferire, almeno per ora, il negoziato con Teheran a una campagna di bombardamenti - è stato seguito dalle dichiarazioni alquanto contraddittorie del suo entourage.
Inizialmente Steve Witkoff - l'inviato scelto dal presidente per sbrogliare i più complesso nodi negoziali - aveva detto di poter concedere alla Repubblica Islamica lo sviluppo di un programma nucleare limitato. Ventiquattro ore dopo si è però smentito spiegando la necessità di ottenere lo smantellamento dell'intero programma nucleare fino all'ultima centrifuga. Una posizione subito rilanciata da Marco Rubio. «Bisogna fare in modo - ha detto il segretario di Stato - d'impedire all'Iran qualsiasi possibilità di ottenere un'arma nucleare sia oggi, sia in futuro».
Le evidenti contraddizioni dell'amministrazione Usa hanno contribuito da una parte a rendere più difficile il negoziato e dall'altra a ringalluzzire Netanyahu convinto, come gli è già riuscito a Gaza, di poter far ingoiare al presidente americano l'opzione bellica. Non a caso ieri numerosi fonti americane e israeliane hanno fatto sapere che i generali israeliani continuano a lavorare su quell'opzione. E sempre ieri, a Roma, è arrivato il ministro israeliano per gli Affari strategici Ron Dermer evidentemente interessato a incontrare Witkoff per capire la piega presa dalla trattativa.
Dal punto di vista tattico Israele è infatti deciso a sfruttare i vantaggi conseguiti lo scorso 26 ottobre quando i raid condotti da F15 ed F35
distrussero le postazioni anti aeree iraniane garantendo a Israele il pieno controllo dello spazio aereo. Un vantaggio che nell'ottica israeliana andrà sprecato se si darà il tempo a Teheran di sostituire missili e radar antiaerei.
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