È rimasto in carcere per un anno e più, accusato d'essere uno jihadista telematico. Quando lo arrestarono, il Viminale festeggiò. Ma alla fine lo hanno assolto. Con tante scuse. Per la Corte d'Assise di Pisa Jalal El Hanaoui, nato in Marocco nel 1990 ma da tempo trapiantato in Italia, tutto è fuorché un terrorista. Il fatto non sussiste, hanno sentenziato i giudici.
Digos e Dda avevano seguito in rete le tracce dell'italo- marocchino per otto mesi. Quando i riflettori dell'antiterrorismo si accendono su di lui, il giovane è disoccupato. Alle spalle piccoli precedenti per droga e reati contro il patrimonio, vive con la famiglia in una casa popolare alla periferia di Ponsacco, nel Pisano. Apparentemente tranquillo e ben integrato, per la procura cela dietro la faccia di bravo ragazzo un'anima da lupo (cattivo) del web. Chi indaga ne traccia i collegamenti informatici con due personaggi già noti: Oussama Khachia, espulso per il suo attivismo pro-jihad, e Halil El Mahdi, per la stessa ragione spedito in cella dalla Procura di Brescia.
Nel luglio del 2015 i poliziotti vanno a prendere El Hanaoui a casa. Lo ammanettano. Il sospetto è che si sia servito di tre profili Facebook per propagandare - sotto falso nome - la guerra santa. Gli contestano post inneggianti alla rivolta contro gli infedeli d'occidente. «Ha successo chi muore martire. Chi cancella i peccati versando il sangue entrerà in paradiso profumato», recita uno. «Chi verserà il proprio sangue entrerà nel regno di Allah», sottolinea un secondo. E così tanti altri: una decapitazione commentata come atto di eroismo, discussioni sulla sharia, dibattiti sulla morte da dare agli omosessuali. In questo caso, con un dubbio: se lapidarli come le adultere oppure gettarli dall'alto di una rupe.
I familiari, increduli, lo difendono. Ma per oltre un anno resta detenuto. Prima in galera, poi ai domiciliari. Con la Procura che impugna la decisione di scarcerarlo. «Se non volete vedere la sua foto per qualche attentato sanguinoso, tenetelo in carcere», sbotta lo scorso giugno all'udienza del Riesame il pm Angela Pietroiusti, confermando la linea dura anche al termine del processo, con la richiesta di condanna a 8 anni di reclusione per istigazione al jihad.
Ma adesso la Corte d'Assise ha stabilito diversamente. Pronunciandosi per l'assoluzione piena come chiesto dai difensori, gli avvocati Marco Meoli e Tiziana Mannocci. «In questo processo è stato difficile persino individuare il capo d'imputazione, perché il dibattimento è stato pieno di suggestioni ma privo di prove», spiegano i due legali.
La Procura, intanto, già annuncia ricorso in appello. Jalal El Hanaoui attenderà libero.
Con buona pace del ministro Alfano, che nel giorno del suo arresto cinguettava allegro su Twitter: «Un altro punto per squadra Stato, un'altra efficace applicazione di antiterrorismo». A giudicare dal finale della storia, non si direbbe.
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